ROCKERILLA N°479/480 (2020)

LA PROFONDA POETICA DELL’ ENVIROMENTAL SOUND RECORDIST: Enrico Coniglio
di Mirco Salvadori

Il dialogo tra due veneziani che parlano dell’abbandono nel quale vive da anni la loro città, nasconde sempre una sorta di amarezza e tristezza che si placa solo grazie alle immagini e ai suoni evocati dalle risposte ricevute, immagini e suoni di una Laguna dalla quale è difficile allontanarsi.
Inizierei subito dal nome che hai dato a questo lavoro, Teredo Navalis un mollusco che si nutre prevalentemente di legno e si insinua nel cuore stesso delle briccole, quei pali piantati in Laguna sul bordo dei canali per segnalarli alle imbarcazioni. Quale il reale significato di questo suggestivo titolo.
La briccola, palo o gruppo di pali in larice piantati nel fango a delimitare i canali navigabili, è per me l’immagine più rappresentativa della laguna e di Venezia stessa. Quando navighi per le acque esterne al centro storico, l’orizzonte è punteggiato da questi oggetti, in molti casi relitti marcescenti e pericolanti. Questi pali vengono aggrediti alla base dalla teredine marina, organismi xilofagi che nutrendosi del legno lo perforano scavandovi delle gallerie che finiscono con intaccare l’intera struttura. È così che questi si indeboliscono al punto di ridursi a monconi, crollare e andare alla deriva. Benvenuti nella mia Venezia.

Esuliamo un momento dal particolare e interessiamoci al tuo esser veneziano. Come e cosa è cambiato o sta cambiando nel rapporto con la tua città, nel sentirla e viverla. Prefiguri di resistere o sei vicino al punto di rottura.
Quello con Venezia è un sentimento ondivago: decidere di restare nel proprio nido, allontanarsi un poco per qualche innocente tradimento per poi tornare sempre alla propria rassicurante routine. La rottura avviene tutti i giorni, anche se per ora resisto, aggrappato come molti di noi alla speranza che le cose possano cambiare. Ma più onestamente mi faccio scudo di fragili paraventi mentali, per provare a vivere la bellezza e unicità che comunque rimangono. È difficile immaginare un’altra vita per chi è nato qui e, per ragioni di vita, qui è rimasto. Se mi dovessi trasferire un giorno non sarebbe comunque in una grande città. Guardo alle montagne, che nei giorni sereni incorniciano la terraferma oltre il Ponte della Libertà.

Riesci a trasferire questo sentire nelle tue produzioni?
Ci provo, da sempre, a partire dai miei lavori più musicali, a quelli in cui prevale l’aspetto di indagine sull’ambiente acustico. Ora che mi ci fai pensare, il fatto di esplorare le aree liminali della laguna riflette un bisogno intimo di distanza, anche sociale intendo.

Ti chiederei di fare il punto della tua ricerca sul campo prima di questa ultima release. Come ti sei confrontato in questi anni con il paesaggio sonoro della Laguna e quali le conclusioni che ne hai tratto.
La laguna di Venezia è uno degli ambiti che negli anni ho esplorato con più interesse. Dopo aver effettuato registrazioni nel centro storico, in cui fa da protagonista il paesaggio sonoro del turismo di massa, ho trovato più stimolante concentrarmi sulle aree meno affollate dell’estuario, le isole minori, i moli foranei, le spiagge e lo stesso waterfront della terraferma, dove Mestre, Marghera e città d’acqua si incontrano. Si può dire che mi sono via via sempre più interessato ad esplorare i bordi delle immaginarie tessere che compongono il mosaico del territorio, ognuna con la sua precisa peculiarità, laddove avvengono invece reali sovrapposizioni tra differenti ambienti sonori. È difficile trarre conclusioni, forse non è nemmeno lo scopo del mio fare musica, salvo confermare quello che già sapevamo: la laguna di Venezia va considerata dal punto di vista evolutivo una laguna antropizzata, dove dinamiche naturali e umane hanno dato forma al paesaggio sonoro di cui facciamo esperienza oggi con le nostre orecchie.

Ascoltando questo nuovo lavoro si ha come l’impressione che il tuo dialogo con la percezione di quanto ti circonda si sia fatto più profondo, intimo, maestosamente minimalista. La scelta di andare a cogliere i suoni della Laguna Nord immersa nella notte credo lo stia a dimostrare. Per contro, come a isolarsi dal clamore della superficie, immergi l’idrofono nel basso fondale ad ascoltare le voci del mondo di sotto.
Esattamente, con questo lavoro ho voluto raccogliere suoni minuti, quasi microscopici, che ho poi ricomposto in cinque narrazioni semplici, di diversa durata, e che in qualche modo ne restituiscono l’essenzialità originaria, anche sostanziale intendo. Teredo navalis è un disco basato non sui suoni dell’acqua, ma sui suoni nell’acqua, cercando di evitare ogni deriva di tipo oleogràfico. Ma sotto la superficie non è poi così tranquillo: è tutto un brulicare di vita, di fauna e flora sottomarina, senza contare tutti i suoni di origine meccanica prodotti dalle imbarcazioni a motore o altri oggetti galleggianti.

Quale il messaggio che giunge dalla natura che per oltre due mesi è tornata padrona del suo territorio.
Il messaggio è il seguente: dove l’uomo arretra, la naturalità riconquista spazi, partendo magari dai margini e invadendo gli interstizi. Mentre noi eravamo segregati nelle nostre abitazioni, cormorani, anatre e garzette scorrazzavano pacifiche per il Canal Grande. Quanto tempo impiega l’edera a fagocitare un rudere abbandonato? quanto tempo impiega il salnitro a sbriciolarne i mattoni? Sono convinto che se noi ce ne andassimo domani, le soffitte delle nostre case diverrebbero in breve nidi di uccelli, i camini ospiterebbero vespai e sui nostri canapè se ne starebbero pancia all’aria ratti grossi come i gatti che avrebbero prima messo in fuga.

Topofonia come metodologia per salvaguardare il ricordo da un lato e dell’altro per creare una mappatura del territorio in divenire?
“Topofonia” è per me l’insieme dei suoni autoctoni che appartengono a un dato luogo preso ad esame in uno specifico momento, che non può che essere il presente. Mappatura quindi in divenire, ma senza indulgere nella nostalgia o nel desiderio di restaurare un passato che non torna. Perché l’uso del territorio, della società che lo abita, ne modifica continuamente i connotati. La peculiarità sta nel mutamento, anche doloroso, nelle crisi e nei ribaltamenti. Peculiare è tutto quello che è “nel frattempo” accaduto: l’identità di un luogo non è una caratteristica stabile, né durevole, varia in relazione ai mutamenti esterni ed esterni, perché il sistema è aperto, dinamico.

Quali i suoni captati che più ti hanno colpito e suggestionato, in questo lavoro.
Quando uscivo con l’attrezzatura microfonica sapevo dove e quando andare a registrare, ma utilizzando soprattutto gli idrofoni non si ha la certezza di trovare quello che si immagina fino a che non si immerge il trasduttore piezoelettrico nell’acqua. Acque poco profonde per la maggior parte, tra Murano e Sant’Erasmo, fino a Punta Vela e di lì all’isola di Burano. È un po’ come andare a pesca, guardo i miei nipoti con la canna in mano, impazienti di sentire abboccare e trovo delle somiglianze: non sai mai cosa ti capita, è un campionamento alla cieca. I suoni che mi piacciono maggiormente sono quelli dei piccoli gamberetti tra le alghe attaccate alle rive dei canali, o i granchi curiosi della secca del Bacàn, in bocca di Lido, nascosti tra le praterie di Posidonia o seppelliti nella sabbia abitata dalle vogole veraci, qui chiamate capparossoli.

Qual’è il rapporto che crei con l’opera finita. La vedi con la freddezza dello studioso o esiste un approccio sentimentale, di cuore, nei confronti delle voci che riesci a raccogliere.
È difficile rapportarsi con un lavoro chiuso. La maggior parte di noi non ascolta più i propri dischi una volta masterizzati e mandati in stampa. Il perché secondo me è ovvio: è il viaggio che conta, non la destinazione, e sentirmi creativo mi fa stare in trip. Non sono un accademico, il mio modo di comporre non si basa su strutture formali, è piuttosto l’approccio narrativo a guidare le scelte. L’aspetto sentimentale sta nel rivivere, riascoltando il registrato, l’esperienza reale: essere soli, concentrati e in silenzio assoluto, con tutto l’armamentario appresso, ad attendere che i suoni “abbocchino”. È semplicemente bellissimo.

Quale l’apporto che lo studio sul paesaggio sonoro può dare per una corretta informazione direttamente collegata ad una vera educazione ecologica.
Questa è una bella domanda, da fare agli amici Francesco Giannico, Leandro Pisano, Nicola Di Croce… loro sono degli studiosi, oltre che artisti.

Tra acque grande, pandemie, fumi tossici che invadono i nostri cieli, come vedi il futuro e quale potrà essere il ruolo di un environmental sound recordist.
Il futuro di questa città è sempre più catastrofico, lo dicono i fatti di cronaca, non ci si deve inventare nulla. La mia abitazione è stata allagata durante l’Acqua Granda della notte dello scorso 12 novembre ed ero in vaporetto quando il 15 maggio di quest’anno è scoppiato l’incendio in uno stabilimento di prodotti chimici a Porto Marghera, portando il suo fumo nero proprio sopra l’isola di Murano verso la quale ero diretto. Il ruolo di sound recordist me lo invento da me, è quello di indagatore del suono, anche solo da un punto di vista estetizzante, per cui continuerò le mie peregrinazioni lagunari e magari quest’estate porterò i microfoni sulla cima di qualche montagna.

https://www.rockerilla.com/shop/it/2020/325-rockerilla-470-lugago-2020.html

 

AVANT, Volume XI, Issue 3/2020 - LISTENING TO THE URBANOCENE. PEOPLE – SOUNDS – CITIES (2020)

Read the interview here.

 

SHERWOOD (2018)

Incontrare un saccheggiatore del mondo antico è cosa che aiuta a capire quello moderno. Il loro agire non contiene violenza o sopruso, sono idealisti armati di microfoni ad alta sensibilità, la stessa che spargono lungo i solchi sui quali viene seminato il suono.
Enrico Coniglio è uno di questi guerriglieri inoffensivi ma pericolosamente capaci di estraniare e sconvolgere chi viene a contatto con i lavori che producono. Uno dei massimi esponenti italiani del soundscaping, maestro dell’alternanza sonora che permette ascolti intrisi di opposte materialità, legate all’apparente inconsistenza del suono registrato così come all’eterea dolcezza della melodia appena accennata.
Una chiaccherata questa, avvenuta qualche mese addietro in occasione della sua performance live all’interno della rassegna Strategie Oblique curata da Giuliana Placanica presso il Fusion Art Centre/Neo di Padova, rassegna dedicata ai suoni di confine che riprenderà in autunno.

AREAVIRUS-Topofonie Vol. 1 anno 2007, Open to the Sea – assieme a Matteo Uggeri – anno 2018, cosa è successo in questo lungo lasso di tempo, quali i cambiamenti anche mentali e cosa ti sei lasciato alle spalle.

Ci sono stati momenti fortunati, alternati a momenti di incertezza. Quando ho iniziato, agli inizi del 2000, sembrava tutto più facile, c’era molto entusiasmo e attenzione. Soprattutto non c’era tutto questo buzz continuo sui social e noi musicisti lavoravamo in modo forse meno smaliziato, ma più sincero. Non mi piace come è cambiato il mondo in questi undici anni. Oggi ho meno speranza nel futuro in generale, ma anche meno attese, meno ansia da prestazione. Ho capito che a un certo punto bisogna un po’ arrendersi. Rinunciare non significa per forza fallire, poi le cose succedono, ma ci vuole tanta pazienza.

Enrico Coniglio possiede due anime: l’intimista e introspettiva, legata al pensiero musicale che rispecchia l’eleganza silenziosa del classicismo elettroacustico e un’anima più fredda e lucida che alberga nelle sue sonorità di oltre confine. Come riesci a coniugare le due cose.

Il fatto è che probabilmente non riesco a coniugarle affatto. Esistono entrambe e trovano sintesi nell’incoerenza che mi contraddistingue. Se guardo indietro vedo un percorso pesantemente segnato dalle divagazioni, alcune più seriose, altre nell’alveo del divertissement. In ogni caso negli anni ho giocato a dare nomi diversi a queste diverse inclinazioni. Alcuni progetti, soprattutto quelli collaborativi, hanno funzionato bene (Lemures, My Home, Sinking, Herion…).

Qual’é la missione di un ricercatore che si occupa di soundscaping

L’oggetto della mia ricerca resta quello di capire come si trasforma il territorio e il suo paesaggio sonoro, che fine fanno le identità locali e le loro ipotetiche “soundmark” e se sia utile o meno preservarle. Ho capito che qualche risposta la posso trovare affrontando la questione attraverso la mia personale indagine sulle aree a margine, quelle zone di transizione e dunque di contaminazione tra le tessere che compongono idealmente i paesaggi delle nostre aree abitate . E’ un tema di ricerca che sto portando avanti in modo sotterraneo, quasi elusivo, e che ho potuto esplorare soprattutto grazie a qualche bella residenza artistica (vedi articolo su gli Stati Generali). Resta il fatto che per me il suono resta un mezzo potentissimo per re-inventare la realtà e la mia estetica è principalmente quella di esplorarne le possibilità immanenti.

“Paesaggio sonoro”, due parole ricorrenti che stanno occupando sempre più spazio negli articoli o nelle discussioni legate al suono di ricerca. Cosa si cela dietro questo binomio.

L’idea di paesaggio sonoro quale “ambiente dei suoni” di Raymond Murray Schafer, per la verità, mi è sempre sembrata riduttiva. Da parte mia negli anni ho sposato questa definizione: il paesaggio sonoro è un aspetto topofonico del paesaggio, dove il paesaggio è un “sistema complesso di ecosistemi”, frutto dei processi di trasformazione derivanti dall’interazione tra azioni antropiche e naturali. Questo approccio, di stampo ecologista, secondo me postula un concetto molto semplice: il paesaggio sonoro è sistema dinamico e di contaminazione. Ingenua è l’idea di farne un tempio per la nostalgia di un passato che è destinato a non tornare.

Si parlava prima delle due anime che albergano nelle tue composizioni. Pensandoci bene però credo che a prevalere sia quella dello scrittore che racconta un’appassionante storia e lo fa con il rumore del mondo che lo circonda. Basta ascoltare i tuoi lavori realizzati esclusivamente mediante il field recording.

Hai ragione, nelle mie composizione prevale l’aspetto narrativo, è qualcosa di innato che c’è dentro di me. Va detto che il suono esiste di per sé intorno a noi, catturarlo e operare su di esso è un’azione poetica che costruisce significato. Registrare e caricare centinaia di field recordings su archivi web, siano essi diari di viaggio o mappe sonore, mi pare invece un’operazione del tutto priva di senso, ingenua e ridondante… per questo non mi riconosco più nella filosofia che vede nel semplice atto della registrazione un’azione creativa in sé. Con il suono dobbiamo costruire qualcosa, sennò rischia di restare materiale inerte, che non genera nulla.

Una domanda che sovente pongo al sound artist che si occupa di estetica del paesaggio sonoro riguarda la sua appartenenza o meno ad un mondo che, visto da fuori, sembra poco legato ad una realtà diffusa, anche se per assurdo, di questa essenzialmente si occupa. Esiste come una barriera trasparente che filtra la passionalità rendendo assai ‘cattedratico’ l’approccio a questa disciplina. Qual’è il tuo pensiero a riguardo.

Il problema è in generale della musica elettronica che qualcuno ha battezzato ‘colta’: la barriera c’è sempre stata perché quel suono è poco accessibile ai più e perché i suoi fautori hanno sempre voluto mantenere un’aura di misticismo, barricandosi dietro uno scudo impenetrabile sotto il quale celare chissà quali segreti alchemici. Io sono dell’opinione che la musica elettronica vada presa meno sul serio e se possibile s-velata. L’esoterismo non ha portato a nulla, se non ad allontanare il pubblico.

Quella con Leandro Pisano – tra le mille cose, anche fondatore e direttore artistico del festival Interferenze – è una collaborazione che vi ha portato alla realizzazione della Netlabel Galaverna. Quali sono i propositi di questa etichetta digitale e cosa ne pensa Enrico Coniglio del suono gratuitamente distribuito, continua a mantenere intatta la sua spinta primaria o qualcosa é cambiato.

Io e Leandro abbiamo creato Galaverna quando la scena del netlabelism era già molto popolata e le label che stampavano erano in piena crisi, perché si cominciava a vendere sempre meno, diciamocelo. L’etichetta è nata come consorella di Laverna, come piattaforma su cui distribuire i lavori di soundartist impegnati personalmente sulla questione intorno al paesaggio sonoro contemporaneo. Per rispondere alla tua domanda, lo dicono le statistiche del nostro sito: oggi molto streaming e pochi downloads. Forse le nuove netlabel sono le cassette-label: ridotti costi di produzione, prezzi di conseguenza accessibili, su un supporto decisamente imperfetto ma che resta caldissimo. Non è solo retro-mania, la cassetta rappresenta il prodromo del pirataggio, quando si riversava, si duplicava, si registrava anche dalla radio o dalla Tv…
Molte netlabel hanno chiuso i battenti, con Galaverna resistiamo anche se un po’ a rilento. Abbiamo un bel catalogo e i riscontri positivi comunque arrivano.

Una domanda che mi sta particolarmente a cuore riguarda il rapporto tra il tuo suono e la città che da sempre lo ospita, Venezia.

Venezia è una città divorata dalla mono-cultura turistica, che sta subendo gli effetti che si registrano in tutti i centri storici italiani, né più né meno. La città è al collasso, è un processo innescato molto tempo fa, ineludibile e per questo catastrofico. Mi spiace, ho già detto che sono pessimista, per cui non vedo alcuna possibilità di salvezza. Provo a raccontare una Venezia in chiave non-nostalgica, per non rinunciare ad una visione lucida della tragicità del presente. Poi non so se ci riesco perché il romanticismo, come sensibilità personale di inventare il mondo, è fissato nel mio DNA. C’era una scritta su un muro che diceva: “Venice is sinking”… speriamo presto.

“The gran parade of hostile winds” è il titolo del tuo ultimo lavoro live presentato per ora a Mosca e a Padova all’interno della rassegna “Strategie Oblique”. Parlacene.

Questo lavoro è il punto di partenza per un nuovo modo di presentarmi dal vivo, basato su pochi dispositivi sonori con i quali riesco ad interagire in modo più concentrato e immediato. Il live si sviluppa partendo dalla generazione di frequenze molto alte, simili ad acufeni, appena intellegibili dall’orecchio umano e caratterizzate da un suono tagliente, progressivamente rinforzate dai battimenti prodotti dalla modulazione di frequenza dovuti alla layerizzazione degli impulsi tramite una loop machine. Mano mano che si scende di registro il set si complessifica fino a creare una tessitura di droni di stampo ambientale. Il proposito è quello di esplorare il suono interstiziale della materia, prodotto dalla frizione di frequenze acustiche la cui sovrapposizione fa emergere sonorità nascoste. Il titolo è stato suggerito da Diego Chersicola.

Due parole sulla data russa non possono mancare.

Il pubblico presente al centro del Cultural Centre DOM a Mosca, in cui ho suonato in compagnia di Giulio Aldinucci grazie al progetto VIVA ITALIA del geniale Dmitry Vasilyev, è stato molto affettuoso . Così come al NEO a Padova, cosa che non accade di sovente, specialmente qui in Italia. Molte strette di mano, chiacchiere e qualche disco venduto. Fa piacere. Al pubblico russo secondo me piacciono i suoni dalle tonalità scure, è gente del nord in fondo. Un’esperienza incredibile andarsene a spasso per la foresta ancora innevata, mentre Dmitry fora col trapano a batterie i tronchi dei faggi per raccoglierne il succo attraverso un deflussore per flebo. Nota di colore: per poco Giulio calpesta una vipera appena destata dal letargo invernale. Ci è andata bene.

Torniamo alle tue composizioni, quali gli input che le creano.

Ascoltare musica fatta dagli altri, sto pensando a quei dischi che vorresti avere fatto tu. Non sopporto chi dice di non aver tempo per ascoltare la musica degli altri. Gli spunti poi arrivano da ovunque. Credo sia soprattutto importante pensare molto prima di accendere il computer, premere play sul registratore o mettere le mani sulla tastiera di uno strumento.

Cosa leggono le stelle nel tuo futuro?

Sotto lo sguardo di stelle indifferenti e lontane: diversi progetti con Nicola Di Croce, con cui da poco abbiamo firmato il sound design del Padiglione Venezia per la Biennale 2018; un nuovo disco in fase di mixaggio con l’instancabile Matteo Uggeri e l’idea di un ritorno di Lemures, la butto là così Giovanni non si può tirare indietro…

https://www.sherwood.it/articolo/6546/plundering-the-ancient-world 

 

SOUTERRAINE (2017)

Uno sguardo alle onde del mare. L’altro al display del registratore. Enrico Coniglio non è solo un attento osservatore, ma uno dei soundscaper italiani più eclettici in circolazione. Il suo interesse per l’estetica paesaggistica ha spesso stimolato la sua curiosità al punto da ‘traghettarlo’ dall’ambient al field recording, indagando ancora più a fondo sull’identità dei luoghi della propria anima e sull’incerta evoluzione dei territori.

“Open To The Sea” (2017), con la collaborazione di Matteo Uggeri, e “King Of Corns” (2017), firmato come My Home, Sinking, le più recenti aggiunte a un catalogo in lenta e costante crescita. In che modo descriveresti l’evoluzione del tuo sound?

Se provo a guardare indietro, vedo almeno due percorsi distinti che, probabilmente, incarnano il desiderio di dar voce alle diverse personalità che albergano in me. Nel 2002, quando ho venduto un ingombrante Marshall 4 Coni per un grigio assemblato dotato di frusciante Sound Blaster, è cominciato tutto. Ho individuato l’ambient come il genere che mi consentiva di raccontare il paesaggio con un taglio anche emozionale, trovando ispirazione nell’esperienza della laguna di Venezia. Oggi mi sento più vicino a un approccio documentaristico, gli elementi musicali sono ridotti al minimo nelle mie soundscape composition. D’altra parte, recentemente, ho sentito il bisogno di tornare a scrivere canzoni, ed ecco il mio progetto folk-cameristico My Home, Sinking. A metà tra questo e quello c’è il lavoro con Matteo Uggeri, uscito per Dronarivm, che rappresenta una sorta di crossover tra mondi musicali che solo alcuni vogliono mantenere distinti. Perché le distinzioni sono, a volte, trincee dietro le quali nascondersi. La mia ricerca è volta agli spazi liminali, mi interessano le contaminazioni, gli interstizi, le migrazioni. Matteo Uggeri è uno coraggioso e pure lo è stato Dmitry Taldykin, il proprietario dell’etichetta russa, che ci ha sostenuto con sfidante entusiasmo.

Il ritorno del tuo alias ti riavvicina a forme acustiche e inserti vocali.

Il bisogno dell’armonia è innato secondo me, l’estetica del rumore è piuttosto novecentesca. Non rinuncio né all’una, né all’altra, motivo per cui mi cimento in diversi progetti, con la cautela di utilizzare diversi alias. Se ambient, drone, elettroacustica mi consentono di comporre musica fuori dagli schemi, resta la voglia di comunicare anche attraverso linguaggi più codificati. Ad esempio, un progetto come My Home, Sinking nasce per dare voce a questo mio desiderio: ibridare ambient, folk, modern classical senza il timore di disorientare, rifacendosi a ciò che hanno già realizzato alcune grandi band del passato. Eppure ci sono etichette musicali, con un catalogo consolidato e ben saldo su radici ambient, che guardano con sospetto alla comparsa della voce in questo ambito. Sembra quasi che la voce sia sinonimo di mainstream. Forse si ha paura di disorientare i propri affiliati, in un mondo in perenne overload di uscite.

La musica che hai composto sinora ha più valore oggettivo o soggettivo?

Comporre musica restituisce un’interpretazione personale della realtà sperimentata in modo empirico e, al contempo, esprime la trasposizione della propria Weltanschauung. Tutto ciò che concepiamo appartiene al dominio della soggettività. Non potrebbe essere altrimenti. La soggettività del pensiero è immanente alla natura dell’uomo. La necessità di esprimersi in modo creativo, che alcuni di noi hanno nel cuore, è solo il modo di interpretare il mondo in cui viviamo, i suoi fenomeni. Il tentativo di dare ordine al caos, un gesto neghentropico. Anche se poi dichiariamo di essere tutti fan dell’entropia.

Il flauto e la chitarra, il computer e il registratore. Gli strumenti che hanno accompagnato un certo progresso in note alla stregue di autentiche istantanee di differenti momenti della tua vita, tutti vissuti intensamente. Il saggio di fine anno, il tipico strimpellare adolescenziale, i primi esperimenti e quella strana voglia di imprimere su nastro magnetico i ricordi di una passeggiata nel bosco.

Alla scuola media statale Francesco Morosini l’insegnate di musica, nel corso di una lezione, aveva sottoposto la mia classe a una specie di interpretazione grafica del suono. L’esperimento consisteva nel farci ascoltare alcuni rumori ‘prodotti in laboratorio’, così aveva detto, diffusi attraverso un mangianastri sulla cattedra, lo ricordo con precisione. Ogni volta che il registratore emetteva un ‘bip’ o un ‘fiu’ on un ‘zzz’ dovevamo provare a disegnarlo. È stato il mio primo approccio all’ascolto della musica elettronica. Più avanti ho iniziato a strimpellare la chitarra che, fino ad allora, chiedevo di suonare a mio padre, perché mi divertiva molto. Dopodiché, è stato il tempo delle band, la sala prove, i volumi al massimo, il sogno di uscire dalla macchia e incidere un disco in uno studio vero. Sono, poi, entrato in possesso di un walkman Toshiba dotato di microfono stereo, che conservo ancora, ideale per prendere appunti e fissare il ricordo di una gita. Frammenti audio da riascoltare a casa, quando fuori piove e non puoi essere là dove vorresti. Probabilmente, il desiderio di essere altrove trova soddisfazione nell’impossibilità di realizzare i propri desideri. A questo mi serve la musica.

Che valore ha un verbo quale ‘sperimentare’?

Non mi sono mai presentato come uno sperimentatore, provo a fare cose nuove per me, senza pretesa di originalità. Sono un po’ manierista. Spesso ascolto un disco realizzato da qualcun altro e penso che sia riuscito a esprimere qualcosa che da qualche parte c’era anche dentro di me, ma lo abbia fatto prima o meglio. Provo a coglierne lo stile, poi esce fuori qualcosa di diverso. Si procede per imitazione e si aggiunge qualcosa. Ogni tanto sono contento del risultato, ma dura poco, qualche mese più tardi guardo indietro e penso che rifarei tutto daccapo. Tuttavia, è impossibile restare soddisfatti per sempre, essere soddisfatti è uno stato assolutamente precario. Sperimentare è un gioco, no? Deve essere divertente, se così non è allora mi prendo una pausa, faccio altro. Tavoloparlante, con Nicola Di Croce, è il progetto più sperimentale e divertente a cui abbia mai preso parte. È puro dadaismo e questo al nostro pubblico piace, arriva.

Sei lustri fa l’unico modo per entrare in contatto con diversi generi musicali più acquistare musicassette e vinili. Quali oggetti conservi con maggior affetto?

Premetto che sono un accumulatore seriale e non butto via nulla del mio passato, sarà che sono sempre ‘alla ricerca delle mie radici’. Conservo tutti i vinili dei miei genitori, strisciati, distrutti. Tutte le audiocassette copiate che ascoltavo alle medie. Tutti i cd comprati alle superiori nei negozi di musica che oggi non esistono più. Oggi acquisto ancora vinili, cassette e cd, in sostanza non è cambiato nulla. Non ho una ‘collezione’ immensa come alcuni amici che invidio un sacco, ma sono molto attaccato alla materialità dei miei pezzi. Sono affezionato alle cose vecchie soprattutto, le cassette che registravamo per gioco con mia sorella da bambini o quelle con incisa la voce di mio padre da giovane, i vinili di Igor Stravinskij, di Andrew Lloyd Webber, del coro dell’Armata Rossa. Sono affezionato all’odore della polvere, della carta vecchia, della plastica deformata. Sono un inguaribile nostalgico degli anni Ottanta, ma guardo anche avanti. Anche se il mondo che verrà non mi piace molto.

Field recording, musica delle aree a margine, paesaggio sonoro, sound art. I quattro punti cardinali del tuo agire come musicista degli anni Duemila.

Qualche anno fa, scribacchiando a tempo perso, pur non essendo un accademico, ho buttato giù alcune idee sul tema del suono di confine. Quel post pubblicato sul mio sito è arrivato in qualche modo a Leandro Pisano, curatore irpino di chiara fama, con cui conduco la label digitale Galaverna e che, da poco, ha pubblicato per Meltemi Editore il saggio miliare “Nuove Geografie Del Suono” (2017). Grazie ad alcune riflessioni portate avanti assieme, senza tuttavia mai imprimerle su carta, mi sono convinto che il concetto di ‘margine’ possa divenire un nuovo modello di interpretazione del paesaggio sonoro contemporaneo, un paesaggio spurio, lontano da idealizzazioni nostalgiche e, forse, qui vado in cortocircuito rispetto alle mie personali inclinazioni. Come mi è capitato di spiegare in occasione di qualche residenza artistica, questo approccio deriva dai miei studi in urbanistica, con riferimento a un’idea che viene della ‘landscape ecology’.

Secondo l’interfaccia tra geografia ed ecologia, il paesaggio è composto da minime unità strutturali dette ‘patch’ che venendo a contatto tra loro generano i cosiddetti ‘ecotoni’. Questi ultimi sono territori di confine dove avvengono fenomeni biologici di contaminazione tra le parti. Un ecotone è perciò un’area di transizione in cui si verifica, tra le altre cose, un aumento della biodiversità. Una volta trasferiti tali concetti al nostro campo di interesse, se il paesaggio sonoro è un aspetto acustico del paesaggio in generale, che ipotizziamo sia suddivisibile in unità minime, l’adiacenza tra le diverse parti del paesaggio sonoro darà luogo ad aree di confine che saranno più ricche di suoni delle singole parti da cui il suono si origina. Il suono, viaggiando sul vettore aria, gode di una capacità di migrazione molto alta. Ciò significa che quasi tutti i campi di ricerca del field recordist, che si muove tra regioni sviluppate, corrispondono ad aree di confine. E qui la riflessione è del tutto aperta e i risultati di una simile ricerca ancora da valutare.

Crea maggiore impatto emotivo la musica o l’immagine?

La differenza principale giace nell’immediatezza della percezione umana. Un’immagine la percepisci nella sua totalità, in un battito di ciglia. La musica è tutt’altra cosa, è necessario avere pazienza, bisogna farsi condurre per mano. Il suono viaggia sull’asse del tempo e per ascoltare qualcosa serve averne abbastanza. Se le immagini mi seducono in un istante, la musica mi fa viaggiare con la mente, mi attiva fantasticherie incredibili simili a un sogno lucido, specie se ascolto al buio, in uno stato di dormiveglia.

La ricerca che conduci sembra intenzionata a conciliare al minimo analogico e digitale e, contemporaneamente, a prevenire al massimo una qualsiasi forma di tua intromissione. Il ruolo che hai ritagliato per te stesso è quello di una sorta di osservatore interessato, pronto a non esagerare in termini creativi.

La mia musica non è, sicuramente, il dominio del suono digitale, né la sua celebrazione. Tutto sommato credo che sia questo a renderla poco up-to-date e, in parallelo, poco intrigante per chi è sempre alla ricerca del nuovo. Con me, non si ascolta nulla di nuovo. Provo a essere un artigiano, che lavora soprattutto nella sua bottega e non si trova molto a suo agio alla luce del sole. Per dar sfogo alla creatività indosso altre maschere.

Tavoloparlante è, invece, l’altra faccia della medaglia?

Tavoloparlante è l’ennesima faccia di una medaglia che somiglia, per la verità, più a un sasso dalle molte sfaccettature. Si tratta di un’installazione animata, a volte al centro della scena oppure in disparte. È una performance non ancora su supporto fisico, è animale in mutazione, miscela instabile. Ed è qualcosa che ci diverte fare, che trova riscontro nel pubblico e che si propone per quel che è. Tavoloparlante non è altro che un set cinematografico dai rimandi elettroacustici, che svela in modo didascalico alcuni meccanismi del genere e gioca con i suoi cliché. È un progetto finanche irriverente e vernacolare. Invita i presenti alla partecipazione. Rappresenta la nostra occasione per coltivare passioni comuni, agganciare altri artisti e cogliere ulteriori opportunità.

Una traccia può dirsi, dunque, completa quando?

Quando sento che non c’è nulla di più che potrei fare per migliorarla, in quel preciso momento. È una situazione fragile, estemporanea. Finisci un lavoro, lo invii a chi di dovere per il suo mastering. Per un po’, sei convinto che era giusto concluderlo in quel modo, poi si insinuano mille dubbi. Alla fine, capisci che devi rinunciare al desiderio di controllare tutto e ti arrendi. Questo è il motivo per cui vuoi iniziare un nuovo lavoro.

La laguna di Venezia e le aree limitrofe sono state spesso al centro di tue composizioni. In che modo subisci il fascino di una città mozzafiato e, soprattutto, l’influenza dei suoi meno chiacchierati ambienti naturali marini?

L’ambiente terracqueo della laguna di Venezia è un ideale campo di prova dei concetti sopra enunciati. Inoltre, la medesima è diventata un porto-rifugio per noi abitanti del centro storico, vessati dal turismo di massa e ormai incapaci di convivere in uno stesso spazio così limitato. In poche parole, la laguna è un’area di fuga dal caos che pervade la città dodici mesi l’anno. Credo ormai non ci sia davvero più nulla da fare se non fuggire. È triste, ma la mia fascinazione per Venezia è scemata: la città che amavo, quella dei ricordi d’infanzia, non esiste più. Esistono solo appartamenti in affitto su Airbnb, bancarelle di paccottiglia e masse bovine che si aggirano per le calli e i campielli. Se il turista si rendesse conto che Venezia non esiste più, smetterebbe di venire a visitarne le reliquie. Eppure ciò non accadrà mai, perché cerca la finzione, non l’autenticità. Lo svago e il semplice plaisir. Il sightseeing è soltanto un penoso slogan.

Ci sono altri luoghi a cui sei sentimentalmente legato?

Oggi sono più legato all’ambiente alpino che a quello lagunare, che frequento tutti i sacrosanti weekend. Anch’io un turista? Odio pensarlo, mi vedo di più come un amante abituale. E proprio per questo, anche se sono ben cosciente che il mio è un desiderio di fuga pari a quello di tutti gli altri, ho nell’animo di trasferirmi, prima o poi, a vivere in quota. Quando guardo le montagne, avverto un’energia e una pace impareggiabile. Sono legato a quei luoghi fin da bambino e, fin da allora, il mio sogno è restarci per sempre.

L’acqua è ciò che collega release quali “Astrùra” (2016) e “Solèra” (2016), titoli che rimandano, non a caso, a diversi tipi di fondali, se non realtà osservate con cura.

Fermo restando il mio amore per le ‘crode’, il mondo dei suoni sottomarini, naturali o prodotti dalle opere o attività antropiche, resta comunque il campo di ricerca che mi affascina maggiormente. E se è vero che l’acqua è un soggetto banale, è pur vero che il carattere timbrico del suono recepito da un idrofono restituisce alle orecchie delle suggestioni singolari, quasi misteriose. Si direbbe che alle volte è il microfono che ‘fa’ il suono più che recepire ciò che viene emesso dalla sorgente sonora. Per imprimere una forte identità alle Bragos Series, il dittico citato, ho scelto di guardare a ciò che contraddistingue la laguna nel suo essere più profondo, viscerale: il suo fondale. A parte la curiosità fonetica dei nomi in questione, ciò che mi ha catturato è scoprire che ciò che comunemente chiamiamo fango è, in realtà, caratterizzato da diversi tipi di sedimenti.

Ad andar per ‘ghebi’ e barene, ti accorgi di quanto differiscono tra loro. Quando raschi il fondo della barca con la chiglia, o quando ci cammini sopra, a piedi nudi. È un lavoro transcalare, dal micro al marco. Ai margini della ‘layerizzazione’ delle registrazioni sul campo, collocate in primo piano anche nel missaggio, in emersione flebili bordoni ricavanti dall’enfatizzazione di alcune armoniche ‘che cantano’, presenti negli stessi field recording. Con “Astrùra” e “Solèra”, una strana coppia di 10” stampati in edizione limitata dalla 13 di Stefano Gentile e corredati da alcuni magnifici scatti a cura dello stesso gestore dell’etichetta, ho avuto l’opportunità di rinverdire una manciata di registrazioni raccolte nel 2010 e rimaste a giacere nel fatidico cassetto per un certo tempo.

Vinile in edizione limitata, cd dalla precisa resa sonora, musicassetta come ritorno alle origini. Qual è il più adatto per talune sonorità estreme?

Vinile e cassetta si prestano a riprodurre suoni che non hanno bisogno dell’alta fedeltà. Viceversa il cd continua a essere un riferimento per musica le cui frequenze non possono essere impresse su altri supporti. La cosa migliore è avere in mente sin dall’inizio l’output finale come qualcuno che disegna a mano libera e già visualizza, con buona dose di approssimazione, l’oggetto ritratto nella sua completezza. Ad esempio, avere le idee chiare sulla durata delle singole tracce, così come sulla loro sequenza, aiuta molto nella fase di riversamento sui media fisici, soprattutto per quanto riguarda il vinile, che richiede anche un tipo di masterizzazione molto accurata.

L’elemento acquatico è stato, inoltre, fonte di ispirazione anche per un album ‘glaciale’ quale “Cloudlands” (2009), con Gianluigi Gasparetti, che per il più oscuro “Sea Cathedrals” (2010), realizzato con i contributi di Manuel P. Cecchinato e Massimo Liverani. Da una parte, sintetizzatori e disturbi sonici. Dall’altra, registrazioni dal vivo e derive industrial. Approcci tanto fluidi quanto virtuosi.

Il ghiaccio è l’elemento fondativo di tutte le release della Glacial Movements. Sì, sono due album fondamentalmente diversi anche se vicini temporalmente. Sono molto affezionato a entrambi, per diversi motivi. “Cloudlands”, i cui titoli dei brani sono stati scelti da Oöphoi, è un disco che nasce dall’innamoramento del lavoro di Alessandro Tedeschi, il patron della label. Il disco contiene diversi spunti. Io ho imbastito un’ossatura fatta di texture e ritmiche sulla quale poi Gianluigi Gasparetti ha aggiunto con estrema delicatezza abbellimenti e melodia. Tutto sommato, a parte qualche lungaggine di troppo, credo sia uno dei miei lavori più riusciti.

Il successivo “Sea Cathedrals”, con i contributi di Massimo Liverani e Manuel P. Cecchinato, è nato, invece, appositamente per un’etichetta quale la Silentes del già citato Stefano Gentile. Alla lunga e rassicurante title-track seguono bozzetti che lentamente conducono l’ascoltatore verso sonorità più dark. Le trame sono costruite su field recording registrati a Porto Marghera, riprodotti con un campionatore, acquistato proprio da Oöphoi, e riverberate con un processore effetti Eventide Eclipse.

Qual è il tuo ricordo del compianto Oöphoi?

Ho conosciuto Gianluigi Gasparetti attraverso Alessandro Tedeschi, gli ho proposto “Cloudlands” in una versione embrionale e lui mi ha invitato nel Kiva, il suo studio nelle colline della Tuscia. Ad accogliere me e mia moglie, in vacanza già da qualche giorno in Umbria, tre cani e circa quindici gatti. Abbiamo passato una splendida e semplice serata in compagnia di Oöphoi e della sua compagna, fantastici ospiti. Ricordo il suo sorriso gentile e il carattere forte di Alessandra Clini. L’ultima volta che lo ho sentito è stato qualche mese prima della sua scomparsa, è stata una telefonata tragica, in cui mi spiace di non essere stato abbastanza forte e non aver saputo dargli il giusto conforto.

Hai avuto modo di affiancare vari artisti in progetti quali Herion, Øe, Lemures e altri già nominati. Che cosa hai imparato da queste collaborazioni?

Impari a mediare, ad ascoltare i consigli altrui, a dover rinunciare ad alcune tue fisse. Impari anche a lasciare fare a chi è più bravo di te. Qualche volta ci si accapiglia e si finisce col litigare e mandarsi persino a quel paese. È tutto abbastanza naturale. Le esperienze citate sono oggi o chiuse, but you never know!

Qual è lo stato di salute della nicchia ambient tricolore?

Non vorrei sbilanciarmi, ma forse l’ambient in Italia ha lasciato da tempo spazio a drone music e sue varianti. Seguo solo in parte la scena, immagino ci siano molti nuovi talenti, ma io sono pigro e mi focalizzo più che altro sulle uscite dei miei amici. Viviamo una fase di stallo? Alcuni giornalisti lo ribadiscono ogni giorno sui loro social network. Non credo che per forza si debba andare avanti, ma ritengo che non possa solo vincere la retromania. C’è un hype mostruoso per registratori a nastro e modulari e forse le patch di Max avranno anche perso un po’ di smalto, ma mi sembra che, dopotutto, oggigiorno viviamo una realtà in cui sperimentazione e repêchage convivano abbastanza bene.

Che cosa hai scoperto registrando ore di field recording?

Nulla di particolare, se non che registrando si impara ad ascoltare, si impara a distingue i suoni che formano il paesaggio sonoro, si impara a decifrare la loro origine e ciò stimola una serie di riflessioni sulla natura dei fenomeni territoriali e sociali, su come cambia il territorio stesso e su come l’identità di un luogo sia un concetto estremamente vulnerabile. L’identità non è un che di immutabile, è solo uno stato apparente. Pericoloso è il pensiero che si aggrappa all’identità locale e ne fa una bandiera. Il mio rapporto con il field recording è stato molto altalenante negli anni, solo recentemente ho riscoperto il piacere di premere il tasto ‘rec’. Oggi sono più sicuro di quello che mi interessa catturare coi microfoni, mi interessano i dettagli più che l’ambiente tout court, senza fingere di non essere attratto da quei suoni che ti incantano perché sono semplicemente originali.

A prima vista, il progetto “Sapientumsuperacquis” (2008) potrebbe essere nient’altro che uno dei vari rilasciati come mp3, formato ideale per esporre la propria arte in rete con un semplice click. Gli appassionati dell’ultima ora potrebbero, però, ignorare l’endorsement di una label prestigiosa quale la Touch. Una release che, inevitabilmente, si trasformò in un piccolo ma ottimo biglietto da visita.

Invece è solo un mp3, frutto di una serie di mirati appostamenti notturni su una riva veneziana in attesa del giusto livello di marea, pubblicato da una label di tutto rispetto. La mia vita non è di certo cambiata dopo le release con Touch, ho sempre fatto fatica, in seguito, a trovare un endorsement. Non ho un gran numero di follower, non frequento le persone e i posti giusti. Preferisco andare in montagna piuttosto che farmi vedere a una mostra d’arte. Odio i presenzialisti, sono troppi in giro. Se qualcuno vuole davvero agganciarmi, deve propormi di andare per sentieri.

È stato poi facile convincere Alessandro Tedeschi e Stefano Gentile?

In realtà, sia con il primo che con il secondo c’è un rapporto di amicizia. Ho incontrato Alessandro Tedeschi l’anno scorso in occasione di una serata glaciale al Masada a Milano e trovo che sia una persona di cuore con un’inestinguibile passione per il suo lavoro di disseminazione del suono del grande nord. Con Stefano Gentile siamo più vicini geograficamente, lui è innamorato di Venezia e i suoi scatti lo testimoniano bene. Quest’estate, in compagnia di Nicola Di Croce, abbiamo fatto un giro in laguna con lo scopo di esplorare alcune isole abbandonate. Lui e Monica Testa, fotografa che collabora con l’etichetta Silentes, hanno provato a fermare il tempo con gli scatti delle loro fotocamere. Nicola Di Croce, coi binaurali in testa, era sotto il tiro dei cormorani appollaiati sugli alberi e io al timone del mio caccia-pesca in vetroresina. Dopodiché, tutti a mangiare il pesce a Burano in piazza Galuppi. Insomma, è abbastanza difficile convincere il prossimo a stamparti un disco se gli invii soltanto un’e-mail.

La via digitale è la medesima che hai percorso con la tua etichetta, la Galaverna, una valvola di sfogo per le idee di amici e altri esponenti della scena contemporanea. L’unico modo per provare davvero a imporsi all’interno di un mercato etereo è, a questo punto, mantenere alta la qualità dei lavori proposti?

Galaverna è apparsa sulla scena quando si era appena diffusa la banda larga e le netlabel erano, forse, l’unica risposta intelligente alla crisi del mercato tradizionale. L’etichetta è nata come piattaforma su cui ospitare i lavori di musicisti impegnati nella querelle intorno al paesaggio sonoro contemporaneo, dando risposte anche parecchio diverse. La qualità è un prerequisito fondamentale, ma non saprei specificare quali determinate caratteristiche debba avere. In ogni caso, quasi tutti i lavori pubblicati sono stati commissionati agli artisti da noi due. Oggi Galaverna è giunta a una svolta, abbiamo pensato di porre fine a tale esperienza per dedicarci a un nuovo progetto. Il nostro sito resterà on-line ed il catalogo sarà, comunque, valorizzato nel tempo. Non chiudiamo i battenti, semplicemente, abbiamo voglia di espandere le nostre possibilità, incamerando nuove forze e pensando a un differente output.

Il free download è lo spauracchio di un’era diversa da quelle precedenti?

Oggi non si scarica più l’mp3 , lo si ascolta in streaming. Cambiano i supporti, cambia la velocità di connessione. È l’avanzamento tecnologico. Non so se mi piace, ma è così. Io compro oggetti fisici, ma ascolto anche le playlist su YouTube mentre cucino o passo l’aspirapolvere in casa, peraltro molto di rado, con buona pace di mia moglie.

Quali saranno, invece, i tuoi successivi programmi per il futuro?

È da poco uscito “King Of Corns”, il nuovo My Home, Sinking per Infraction Records, un album frutto di anni di preparazione, per cui sono molto concentrato nel supportarlo. Nel frattempo, ho appena finito di mixare il nuovo disco, che annovera due brani cantati da Lindsay Anderson, voce della band L’Altra, un sogno che si realizza. Sono, inoltre, alle prese con un progetto che coinvolge Stefano Gentile, Monica Testa e Stefano Guzzetti, ma non voglio anticipare nulla. In cantiere, a seguito dell’uscita di “Open To The Sea”, anche un nuovo capitolo della collaborazione con Matteo Uggeri. Oggi sono impegnato con Nicola Di Croce in alcune registrazioni sul campo per il centenario di Porto Marghera, per il quale siamo stati invitati a curare un’installazione nel Padiglione Antares presso il Vega Park, il Parco Scientifico Tecnologico del capoluogo veneto. Infine, si devono anche curare i propri affetti, altrimenti si perde il contatto con la realtà!

https://souterraine.org/portfolio/the-venetian-lagoon-mannerist 

 

ONDA ROCK (2016)

The fragile identity of natural sound

A key figure in the research and study on natural sound (field recording) and a member of AIPS – the Italian archive for soundscape art –, for many years Enrico Coniglio (Venice, 1975) has been bringing forward an original form of dialogue between acoustic elements of the real world and electronic sources of sound: two different practices of reconstruction of physical or imagined places through a subjectivity particularly sensitive to changes. Memory, storage, catalogation and preservation of an identity that time and the intrusiveness of human actions gradually subtracted from those which are veritable “sound ecosystems”, a sensorial heritage which has never been given due attention but which, since R. Murray Schafer’s seminal studies, has also found many new acolytes devoted to the listening, analysis and interpretation of a universe that today is much more likely to remain parallel rather than intrinsic to our daily lives. With Enrico there’s been talking about the role played by the artist in developing and consequentially spreading his research, about the delicate balance between replication and interpretation, and about the supposed necessity to involve the public in the creative process as well as in the “reading” of the deriving work of art. What counts, really, is to have a chance to talk about all this, but most of all to listen and to finally attribute due importance to the spontaneous language through which the world speaks to us.

What’s the source of this particular interest towards natural sounds? Did you meet any teachers that guided you in this field or was it an innate character?
My interest is oriented towards the sounds of the environment, where its naturalness can prevail or succumb to its artificiality. It’s the uncertainty of the outcome from this confrontation that activates my ear and my curiosity. I was born in a city, Venice, which is characterized by large spaces of silence now sadly contracting, partly because of mass tourism and its effects on everyday life. Since childhood my ear has been trained to listen, to find musicality in everything around me. I recently retrieved some old audio tapes dating back to the 80’s, on which I found the recordings made with a Toshiba laptop in very difficult times, when I still didn’t know anything about the history of phonography, except for some Futurist musical work. I carried around with me this walkman, in Cadore, on the mountains, and I recorded fountains and birds and cows grazing at the grass, small souvenirs of places I liked that I could listen again at home.

Unlike other artists in this field, your expression maintains a persistent dialogue between the acoustic sources of the real world and the artificial ones – which in some cases come to the point of blending and penetrating one another. Is acting in this direction more like a gentle “intrusion” or an attempt to establish a dialogue and a mutual exchange between the two areas?
For several years now, also thanks to some recent artistic residencies, I’ve been working on the idea that the concept of “margin” could be a new model for the interpretation of contemporary soundscapes. The focus of my research is precisely situated on that uncertain border between nature and artifice, landscape and manscape, in order to show that, for many areas of the Italian territory, making a distinction between the two seems to be almost impossible. To answer your question, I would say it is more of an attempt to create a dialogue between different sound sources, in that gray area where the different pieces of the landscape tend to fit together. There’s not so much of an aesthetic intention in combining seemingly conflicting sounds, as the attempt to conciliate them, even painfully so, reflecting the acoustic experience of the world in which we live. However, in the musical composition, space and time are folded and redefined at will.

Being an artist do you feel more like a medium to convey something that already exists but isn’t listened to, or the carrier of a strictly personal point of view on reality?
There’s no doubt that sometimes the creative thought seems to arise in totally unexpected ways. Several times this brought me to fantasize about human beings originally endowed with invisible earners, antennas capable of capturing stray signals, coming from who knows what dimension. Or maybe all of this is simply due to the large amount of inputs to which we are subjected every day and that, combining afterwards at a subconscious level, may give rise to insights that sometimes translate into creative actions. It is certain, though, that the representation of a place in the form of a soundscape composition can only account for a highly personal interpretation of reality, and at the same time express the transposition of a broader view of the world.

Together “Astrùra” and “Solèra” form a diptych (“Bragos series”, recently published by the experimental music label Silentes) dedicated to the Venetian lagoon. It’s a sound environment you’ve returned to several times in your path: what relationship did you establish with it over the years? What developments led you to the latest intervention?
A few years ago, when I had just started to focus on the concept of “topophony”, what I had in mind was a more imaginative Venice, so my representation of it certainly seemed more musical. Today I’m especially interested in documenting the identity of this place and in restoring an image closer to reality itself. Over the years, the theme of sounds which are part of marginal areas has become increasingly important in my approach to the investigation of the territory: the “terraqueous” environment of the Venice lagoon is an ideal field of study in which to apply this research model. Thanks to Stefano Gentile, the label owner, I was able to give voice to recordings dating back to 2010, collected during a foggy spring day in the harbor mouth, that eventually became the “Bragos series”. With “Astrùra” and “Solèra” – two 10-inch records named after types of lagoon waters, accompanied by some magnificent photographs by Stefano himself – the flow of field recordings, although playing a lead role, is propped up by harmonic inspirations that disanchor the listener from reality, to create  sort of a bridge towards a new one where fantasy is free to roam. However, the two works are not meant to return a nostalgic image of Venice, but to push us to reflect on its fragility. In the liner notes of the discs I wanted to pin this idea: “The soundscape is a subjective, ever-changing construction and its evolution, then, goes hand in hand with that of the territory itself.”

Over the years you also took part in a few artistic residencies. Tell us a little about how this kind of experiences unfold and what lessons did you draw from them.
In 2015 I was invited twice in Campania to document the soundscape of an area before Fortore, in Benevento’s hinterland, and then the Irpinia, outside Avellino, in both cases close to the Apennines. The first residency was held in June at the LIMINARIA 2015 – #unmappingtime, organised by Interferenze, Scafando and Tabularasa Eventi. The second one, named AQUA MATRIX, was held in December and was organized by Flussi Art Media Festival in collaboration with the Irpinia Madre Contemporanea association.

In the days of the residencies I got the chance to explore the territory, led by the guys from the various associations, through the practice of field recording, to finally return them in the form of listening sessions proposed to the public at the end of the stay. Although the landscapes were substantially different – the more bucolic Fortore, the harsher Irpinia, also due to the seasonal difference between the two residencies –, what I experienced in both cases is quite obvious. The scenic beauty of some areas (urban, rural, mountainous and peripheral) of the Italian territory is what it is by virtue of their particular isolation, the remoteness from major traffic arteries, and thus thanks to the fact that they escaped, even in small part, the logics of exploitation of the territory. Aside from the opportunity to visit new places, meet a lot of nice people and enjoy wonderful food and wine, the experience of the artist residency gives full meaning to field recordings and performances, or installations, based on collected sound materials. It’s not trivial to propose to the inhabitants of a region the sounds of the same place in which they live, for many valid reasons: the main one is that, returning to your previous question, with a stranger’s eyes you convey a totally different narrative of their daily reality. A kind of storytelling that might be able to set in motion the positive growth dynamics of a community’s sense of belonging and make it question itself on the matter of local identity.

The art of field recording gains a special meaning in the context of collective, site-specific listening sessions, with the help of a specifically prepared amplification. For you, securing your work on a physical format has a documentation value in respect to something you’ve created in a given occasion or is more of a real “album”, a different perspective on the same project?
On the one hand I think many musicians look at the “physical format” as to the finish line of a working period – recently we talked about this with Giovanni Lami (Lemures); it’s like putting a landmark on an ideal axis of time, on the evolution of their own path, allowing them to proceed further. Knowing that my music has been fixed on a physical medium gives me a sense of security, even though I recognize the obsolescence to which the objects that surround us are subjected. I think it’s a natural, somewhat narcissistic need to leave a sign of your passage; nonetheless, I still belong to the cult of the material object and of its design. However, I also strongly believe in the power of digital distribution of high quality audio files, which also gratifies the most demanding ears and allows a larger spread. As you may know, with my friend Leandro Pisano I manage the digital label Galaverna which, aside distributing works of artists engaged in various ways in the field recording practices, aims to promote a pondering on your own soundscape starting from the concept of “post-digital”.

Again on the experiential character: we already had an exchange of views on the need and / or the usefulness of providing the listener with the tools to learn more about the genesis of a research work on sound, whether it be through guided listening or workshops and participatory performances. Some artists prefer to maintain an aura of secrecy around their work, handing the public a “finished object” that can reveal certain practices or certain suggestions itself; others, instead, strive to play fair, including and involving the listener as much as possible within a project, going so far as to assign him the role of co-author. What’s your point of view on this matter? Do you think that, to some extent, it is necessary to “take sides” on either party – that is, to clearly define the respective roles – or that one should find a balance between the two?
There’s no doubt that everyone has the right to present himself as he wants: the important thing for me is to declare, even implicitly, the chosen type of approach. This doesn’t mean building barricades: I think it’s a simple matter of honesty, especially for those who work primarily with digital devices. From the listener’s point of view, then, each one has the right to enjoy the performance just for what it is, extemporaneously and without over-structured explanations or induced meanings; a purely emotional, uninformed perception. On the other hand, from the point of view of who presents the work – let’s simplify and call him “sound artist” –  trying to mediate, unravelling the mystery (the exact opposite of the concept of acousmatic, in which the causes of the sound are not disclosed) may be a way to expose the public to a greater understanding; not secondarily, to prove that you are actually working on sounds, that to a cause correspond one or more effects. It is certainly important to be faced with an attentive and curious listener, but the fact of revealing the secrets of the trade does not necessarily trivialize your work. For years I felt the need to declare this belief, to the point of writing a manifesto on the subject. Today I radicalized this need with the collaborative project Tavoloparlante (together with Nicola Di Croce) in which, with varying degrees of participation and a lot of will to play, we invite listeners to become co-authors of the performance.

What’s the experience that interested you the most so far, or the one that gave you more possibilities of expression?
Recently a friend of mine, Enrico Ascoli, got me into a sound design work for the BBC: a precise list of Venetian “sound effects” to be collected for a radio drama set in the Jewish Ghetto. I accepted on the spot with enthusiasm, since I live five minutes from that area. Too bad the story takes place in the 17th Century, so that I had to avoid every sound unrelated to that period. I’m talking about this experience because it was the most difficult and frustrating challenge I’ve ever faced. When you go out on the street and hit the infamous button “rec” you realize that there isn’t a single minute during which the sky doesn’t get crossed by a plane from the Tessera airport; not a moment where a motor boat does not move the waters of the inner side channels, or where you cannot hear a trolley rattling on the ground, the ringing of a mobile phone, the click of a camera. What was supposed to be a two-day job became a torment nearly two months long. My respect goes to my wife and friends, who also got involved in this absurd search for the sounds of an illusory city. Ultimately, just to realize that this everyday life from a mythical past simply doesn’t exist, even in the remotest corners of the city. Only this we can document with honesty. How did it go in the end? Hours of recordings, many more of editing. The sonic signature of Schafer here is lost, it’s a fake, a fraud. The City of the Doges is just a cheap mask, which barely meets a frivolous, picturesque need.

To conclude, leave us with some listening suggestions for those who’d like to approach the art of field recording..
Actually I’m not very good at suggestions. Here’s some titles in random order:

Brian Eno – Ambient 4: On Land
Jana Winderen – Energy Field
Luigi Nono – La fabbrica illuminata
Janek Schaefer – In The Last Hour
Daniel Menche – Raw Recording Series (Volume One)
Eric La Casa – The Stones Of The Threshold

I’ll stop here. But really, most of the field recording works I’m interested in today are free to download from labels such as Gruen rekorder, Crónica, Impulsive Habitat, Green Field Recordings, Galaverna (self-promotion!). Take a look, you won’t be disappointed. [Michele Palozzo]

 

SOLCHI SPERIMENTALI ITALIA (2015)

Quale è il tuo concetto di “musica ambientale”? È indubbio che negli anni mi sono ritrovato più volte a riflettere sul concetto di musica ambient, il genere da cui sono partito e di cui ho esplorato alcuni fortunati sottogeneri, fino ad ammettere che farsi affascinare dalle categorie tassonomiche, quand’anche possa tornare utile, spesso poi impedisce di guardare oltre il recinto. Ciò detto, la musica ambient fa ancora da sfondo ai miei diversi progetti musicali ed è stata principalmente un modo per raccontare il bello e il brutto di Venezia, la mia città, talvolta con un piglio sentimentale, più recentemente con un approccio documentaristico. La musica ambient è per me una specie di camera virtuale, un pensatoio, un’occasione di riflessione più che evasione. Sia una rappresentazione emozionale o una ‘fotografia di paesaggio’, la rappresentazione di un luogo in musica resta comunque una trasposizione della mia personale weltanschauung.

Le tue composizioni rivelano un attento lavoro di scelta del suono. Quali sono i timbri che pensi siano più adatti per veicolare la tua proposta musicale? Operare sul suono è senza dubbio un aspetto creativo centrale della produzione artistica di un lavoro. Se guardo alla mia produzione musicale, mi piace accostare timbri algidi, mai iper-digitali, ai timbri caldi emessi da strumenti acustici o elettroacustici quali voce, tromba, pianoforte, chitarra… È anche per questo che nei miei lavori mi servo così spesso della collaborazione di altri musicisti. Molti suoni sintetici presenti nei miei dischi sono comunque ottenuti dal filtraggio di strumenti musicali o di campioni di registrazioni ambientali. Se è uso comune pensare per sinestesia alla timbrica come al ‘colore del suono’, i miei colori, e i loro accostamenti, sono quelli che trovo nell’ambiente intorno a me.

Ritengo che se dovessimo fare un paragone pittorico la tua musica potrebbe essere affiancata ad un quadro di Turner, ad un paesaggio che si fa astratto, pura visione di luce. Quanto il tuo paesaggio sonoro è influenzato dalla Natura? Rappresentare un paesaggio in musica significa trovare ispirazione nell’esperienza del mondo reale, senza dubbio l’esperienza del paesaggio di Venezia, come delle Dolomiti occidentali che frequento fin da bambino, sta a fondamento del pensiero creativo che anima il mio modo di fare musica. Preferisco però parlare di ambiente piuttosto che di Natura. Il mondo in cui vivo è il risultato della compresenza, spesso sconcertante e dolorosa, di elementi naturali ed elementi che sono il prodotto dell’azione umana. La prevalenza degli uni sugli altri, e viceversa, finisce con il caratterizzare nel tempo un determinato luogo. E se magari preferisco camminare lungo sentieri di montagna o girovagare con la mia barca tra le barene della laguna, con la musica sento il dovere di raccontare anche il fragore degli impianti industriali della vicina Porto Marghera e il rimbombo delle Grandi Navi che solcano le fragili acque davanti al Bacino di San Marco. I miei paesaggi sonori non sono un’idealizzazione della realtà.

La tua musica comunica un evidente afflato spirituale. Sei in grado di definirlo? Raccontare un luogo attraverso la musica intercetta alcune riflessioni di ordine quantomeno metafisico. Anche se la musica appartiene alla dimensione del reale, la sua esperienza si rivela parzialmente scollegata all’hic et nunc. Infatti, se il suono è un fenomeno fisico che avviene nel presente e imprescindibilmente correlato allo scorrere del tempo (una proprietà fondamentale del suono è la sua durata), la musica, nel suo divenire – performata, riprodotta, ascoltata -, apre una porta su una dimensione u-cronica, dove il tempo stesso viene negato o quantomeno ridefinito. Forse questo tempo-altro, che dall’ordine fisico procede all’ordine psicologico, diviene metafisico, cioè finisce con il trascendere la realtà stessa. La musica ambient può ambire a rappresentare ciò che va ‘oltre’ l’esperienza del reale.

Quale è l’album o il singolo brano che più degli altri riassume il senso della tua ricerca sonora? Perchè? Risponderei che il lavoro che mi rappresenta di più è quello che deve ancora venire, ma guardando al passato probabilmente “Songs from ruined days” è il brano che meglio riassume il mio modo modus operandi e che fa sintesi delle mie scelte estetiche. La lunga composizione, di oltre 40 minuti, vuole raccontare attraverso il lento susseguirsi di field recordings, drones e frammenti musicali, la perdita di identità dei luoghi legati alla produzione industriale da un lato, dall’altro degli spazi sacri della cultura occidentale. Una sorta di percorso narrativo, per riprendere le questioni accennate sopra, che a partire dalle specificità sonore di un sito lo reinventa a proprio piacere, senza rinunciare ad offrire uno spunto per una riflessione critica del presente e del mondo che ci circonda. [Antonello Cresti]

 

A CLOSER LISTEN (2014)
Read the interview w/ Giovanni Lami here. [Joseph Sannicandro]

 

FLUID RADIO (2013)
Read the interview w/ Fabio Perletta here. [Gianmarco Del Re]

 

FLUID RADIO (2012)
Read the interview here. [Gianmarco Del Re]

 

A CLOSER LISTEN (2012)
Read the interview and listen on Mixcloud here. [Joseph Sannicandro]

 

LEVIUS WORLD (2011)

Enrico Coniglio: Un sound designer da esterni

Uno dei primi problemi che mi sono posto quando ho iniziato ad interessarmi di musica ambient, un termine che già sul piano semantico sembra essere stato coniato per alludere all’idea di “arredare” lo spazio, è stato quello di capire se la musica – in generale – appartenga alla dimensione del qui ed ora o piuttosto a quella indefinita e altra dell’altrove. Una possibile risposta può essere che la musica non ci racconta soltanto di qualcosa che è già avvenuto, deve ancora avvenire o non avverrà mai, ma inventa il presente dei luoghi stessi in cui viene riprodotta. Li arreda, fino a determinare essa stessa un nuovo spazio e un nuovo tempo. Anche quando la ignoriamo, anche quando è solo un uniforme brusio di sottofondo, la musica nel suo essere diffusa arricchisce il presente, senza cancellarlo del tutto. Dunque, così come la musica rimanda a quel mondo immaginario in cui rifugiarci, molte altre volte sommessamente ci parla del presente, ci aiuta a metterlo a fuoco, a commentarlo, a porlo sullo sfondo di quell’altrove senza il quale le nostre esperienze quotidiane non sembrano trovare una sufficiente convalida.

Arredare uno spazio esterno o interno per mezzo di quella tavolozza di colori che è il Suono, significa determinare nuovo spazio e tempo. Una nuova dimensione che si instaura su quella esistente, nel rispetto – perché no – delle sue caratteristiche. Si può arredare una porzione di bosco, come una hall di un albergo, resta il fatto che sonorizzare un ambiente non significa semplicemente “aggiungere suono al suono”, ma creare un ambiente sonoro completamente altro. Per questo il sound designer sembra oggi sempre più interessato a trovare nuove forme di interazione con il sito, più che proporre un certo ambiente sonoro tout court.

Da qualche anno mi sono appassionato di registrazioni audio sul campo principalmente fatte nell’area della laguna di Venezia, nel tentativo di comprendere prima di tutto, e documentare poi, le trasformazioni del paesaggio – e di conseguenza del paesaggio sonoro – in cui viviamo. Sono registrazioni che raccontano la quiete della barena, come l’agitazione della folla che ogni giorno invade “pacificamente” calli e campi della nostra città. Il passaggio successivo è proporre all’ascoltatore il materiale sonoro registrato, ricomposto, mixato e filtrato in tempo reale fino alla sua trasfigurazione. Sonorizzare un sito significa portare il suono di altri luoghi in uno spazio e tempo definiti, per proporre al pubblico non tanto il suono in sé, ma l’esperienza del paesaggio, reale o immaginario che sia. A tal proposito con l’amico e musicista di Ravenna Giovanni Lami stiamo portando avanti il progetto “Lemures”, basato sulla ricerca sonora live multi-speakers in quadrifonia con forme di interazione con l’ambiente sonoro contestuale alla location dove si svolge la sonorizzazione/performance, pensata appositamente per il coinvolgimento totale dell’ascoltatore, soggetto ultimo a cui ogni progetto è in fondo destinato. [Mirco Salvadori]

 

TOKAFI (2010)

Living on the set of truman Show

Even paradise ain’t what it used to be. For most listeners, the Ambient works of Enrico Coniglio were a perfect representation of his Venetian origins: Stately, romantic, dreamy and topped off with a touch of delicate Piano-magic, they always seemed to dwell as much in the past as in the present, endearing and elegant entities caught in a timeless zone between the ages. This pretty picture is now blown to pieces as Coniglio paints a far less rosy portrait of his hometown on his Touch-debut “Songs from Ruined Days”. Recorded far away from the maddening crowds and the “souvenir shops, gondoliers and Harlequins”, the 45-minute composition searches for echoes from a period when the city still had a clearly discernible personality and haunts down the lines of change that have gradually transformed it into an inorganic theme park. Coniglio visited sites of lost splendour and neglect, discovering factories and churches as focal points of a dramatic process of wiping out local identity. The music, meanwhile, furnishes these sites with an aura of decay, but it also beguiles the listener with sentimental drones and traces of organ, choir, melody and chords to create a mood of great longing. The inclusion of these latter elements is testimony to the fact that “Songs from Ruined Days” is, in its own, silent way, not just intended as a pleasant audio-trip but as a socio-political work – and a clear sign that Coniglio will not allow this paradise to be lost without a fight.

You’ve been interested in the “loss of identity of places“ for a long time. In which way is this loss manifesting itself – and what are the results for the acoustic ecosphere? I became interested in the theme of the ‘loss of identity of places’ during university days, when I got hold of the popular essay by Marc Augé, Non-liux. Looking at the territory of the urbanized countryside of the Venetian hinterland, suburbs of towns, business parks, big infrastructures, conurbations that never end, one wonders what has happened over the last 50 years of history of the country. The answer is that these places have been annihilated, as if they were an artificial memory to be erased and then rewritten. And even though, in Italy, we are very close to the historical past of the country, here in the Veneto region the local identities – meaning here the set of particular anthropological, geographical, environmental, cultural and economic characteristics of a site – have been denigrated and the territory of the countryside has been brutalized by a chaotic urban development without rules.
The ‘loss of identity of places’ is manifesting itself in many ways, but especially by erasing the signs of the past and homologating the territory, and therefore the landscape, at first annihilating the peculiar features and later overloading it with new content, meaning, messages and symbols that do not belong to the place, but to the size of the globalizing “supermodernity”. A non-place is not simply the denial of the place, but its transformation into something new where people transit and consume goods. The result, in terms of an acoustic field, is the disappearance of traditional soundscapes (the “soundmarks” of Raymond Murray Schafer), which only remain in the memory of our ancestors.

It is surprising that this interest in a loss of identity should be coming from someone from Venice, a place which has one of the most clearly definable identities and images in the mind of millions all around of the world… Venice is becoming a non-place because it is losing its own identity in favor of its touristic exploitation. By denying its past, it is turning into a Disney-present. Venice is a real example of how a city can be transformed into a theme park, whose inhabitants are the extras. Sometimes it seems like we’re living on the set of the Truman Show, but we try to resist among souvenir shops, gondoliers and Harlequins. Venice is sinking, they say, even metaphorically, and perhaps that is what pushes me to reveal this slow decline with the expressive means available to me. What I’m trying to propose is a different image of the city, away form the tourist cliche, but that does not deny the contradictions of the present taking refuge in the nostalgia of the past. This is the reason I am interested in exploring Porto Marghera, the industrial side of Venice, that no tourists would be interested to visit… and which is absurdly also running the risk of losing its identity character, as a place of production, in the face of global crisis.

For “Songs From Ruined Days”, you didn’t just make use of samples from Vienna, but also included recordings realised in Austria. What’s the connection? The challenge of this work is to have mixed field recordings made in different places, such as industrial halls and cathedrals, because these large areas of labor and religious life of people today are areas of crisis. What I was interested in during the making of “Songs From Ruined Days”, was to think of the identity of the production sites as places of prayer. On the one hand, the production base in Europe is undergoing a serious crisis, since most industrial areas are in decline due to outsourcing to Eastern Asia, and Porto Marghera is an example of that. On the other hand, there is no denying that the religious spaces are undergoing a serious neglect on the part of young people, because of the crisis of religion that the Western world has been experiencing for more than a century. Maybe these areas will soon be abandoned and constitute nothing but echoes of a glorious past, fall apart or turn into museums. But if my theme was to investigate the loss of identity, the truth is probably that the musical result seems to suggest the exact opposite: as long as a turbine is in action or an organ pipe emits vibrations, these places will still be carriers of their original identity.

Was this also why it was important that all recordings, including instrumental sections from Organ and a Choir, were culled from the same source materials, rather than adding them from somewhere else? When I decided to compose “Songs from Ruined Days” I didn’t yet have the required sound materials: in fact it is not a composition made at the computer, even if the assembly work took place entirely in post-production. “Songs from Ruined Days”, in my intention, is not a work based on the addition of sounds and melodies to recordings of background atmosphere, but a work made of ambience-composition. In this sense, the sounds of industrial production and fragments of organ and choir are not protagonists, but accidental factors of the environment that I was interested in recording. The work is largely based on recording environments with high natural reverb – a part of these records were kept unaltered, but some have been heavily manipulated, transfiguring the sounds, because the intent is still to create a sort of “soundscape composition”. Moreover it is clear that to compose is a subjective operation and therefore arbitrary.

When collecting the materials, were you approaching the recordings already with some ideas in mind at all? A field trip is a trip, first of all. In the sense that the so called “sound-seeker” will go out with his equipment, maybe make a hypothetical plan of the recordings he intends to do, but then follows his ear. You must know how to listen, adapt, improvise and sometimes take risks. In Porto Marghera, when I was inside the factories, I could not move freely and I had to follow precise rules, wearing overalls, goggles and a protective helmet, for example. Maybe I would hear an interesting sound, but I couldn’t get close to its source and this was a cause for huge frustration. It’s quite different when you’re walking outside and then you trust your senses: you walk, you listen and when you find the inspiration, you just record it.

There are two basic concepts of field recording within a city: Seeing the city as sound matter and recording it part of a process of creating a new reality. Or trying to find „representative“ sound materals, which depict a town like a tour guide. Which one was more important for you for this project? My approach is to try to document the places and thus to give the listener a chance to experiment, due to the kind of recording technique I use based on binaural microphones, a somewhat realistic experience of the place where the recording has been made. Anyway the idea was never to create a “different reality”, but rather to escort the listener into a narrative journey, that develops on a time frame on its own – mainly because the music rewrites time – from conceptual to real space. I like very much the idea you suggest of the composer as a tour guide…

In an interview, BJ Nilsen said „cities are as natural as we make them to be“. Is there perhaps an underlying motivation to use your music as a call to change the way cities are organised today? Cities today are probably as artificial as a natural environment, because even natural environments are almost entirely man-made and therefore artificial. The soundscape of our cities is nothing but an aspect of the topographical landscape of the city itself, which in turn is the result of the transformation processes resulting from the interaction between natural and anthropogenic activities in space and in the time. We should change our way of living, we should change the way cities are planned, we should change the logic of capitalist land use that erases identity and brings the world to homologation. Or perhaps we are mistaken and local identities will always be stronger and still survive. But for how long will churches remain places where the faithful pray and factories remain places where workers work? Read the interview here. [Tobias Fisher]

 

SURU (2010)

Jau daugiau nei mėnesį vakarus leidžiu kartu su Enrico Conglio albumu Salicornie: Topofonie vol 2, kurį jis klausytojams padovanojo rudens pabaigoje. Išleistas puikioje kompanijoje Airijoje – Psychonavigation Records, kurie orientuojasi į išskirtinai tyrą, lengvai mistišką, švelniai eksperimentinę auditoriją.

Nepaprastai trapus albumas, apibrėžiantis nakties pasiirstymą saulei nusiledus. Tai ambient kūriniai, kurių kryptis nėra pakankamai sankcionuota. Viskas sukasi tarp šiltų, gyvų garsų, kuomet svaiginama tavo siela. Autorius yra taip susitelkęs į garso svarbą, kuomet kai kurie kūriniai yra tiesiog aplinkos garso įrašai (field recordings), šalia pridėdamas fortepiono, trimito bei violančelės partijas. Kūriniai pinasi vienas su kitu, balansuodami modernios klasikos plotmėje, šalia gaudžiant sunkiam, tačiau šiltos emocijos elektriniam aidui.

Kai gavau šį įrašą, teko kiek pabendrauti su pačiu Enrico. Kadangi jis nuolatos dirba su keliais projektais, tai yra vienas iš trijų albumų, kuriuos jis išleido šiemet. Aptarinėjamas Salicornie nėra paskutinis. Ką tik iš kepyklos, aliejumi dar kvepiantis šviežutėlis Songs From Rueing Days apibrėžia tik vieną kūrinį, trunkantį beveik valandą, kur jis faktiškai naudoja tik aplinkos įrašą. Iš esmės niekada nesupratau tokio pobūdžio „muzikos“, jos svarbos, bei prasmės. Tačiau Enrico man parodė, jog tai yra tiesiog kitas kampas, kaip galima dirbti su savo mintimis norint realizuoti jas kaip muzikinius kūrinius. Orientuojasi labiau į garsą kaip akustinę priemonę, naudojamą instrumento partijos aranžavimui, tokiu būdu pasiekdamas ritmiką. Kompozijose skambant lengvai baugiai melodijai įsiklausai, jog jauti prieplaukos pamatų ir valčių trintį. Tuomet tai patampa lyg autoriaus ir adresato žaidimas mėginant atspėti garsui, panaudotam kūrinyje. Kad ir kiek tai originalu beatrodytų, tai – muzika nepavadinčiau. Na, nebent itin išskirtiniais atvejais.

Buvau labai įkyrus ir uždaviau jam keletą klausimų dėl Salicornie darbo, jo paties, bei Kalėdų. Rezultatai tokie:

Kiek laiko skyrei Salicornie: Topofonie vol 2? Nuo idėjos iki rankose turimo cd?

Negaliu tiksliai atsakyti. Kadangi aš dirbau su juo nuo tada, kai išėjo Topofonie vol.1 (tai buvo 2007 – M.V.). Pakankamai daug laiko užėmė koloboracijos tarp muzikantų, vieno kūrinio vadybiniai klausimai – kaip visus surinkti ir pan.

Kas įkvepia tave muzikai? Aplinka, muzika, knygos, vėjas?

Pirminis įkvėpimo šaltinis yra kraštovaizdis, pagrinde mano miestas – Venecija. Mano realybės samprata apie miestą, nuo tada, kai buvau dar vaikas. Turėjau svajonių, vizijų, kurių dėka mačiau pasaulį per siurrealizmo ir fantazijų prizmę. Kiek daugiau vaizdo nei gali aprėpti akys. Gal tai ir paskatino domėtis alternatyviomis meninėmis priemonėmis, būdais pasidalinti tuo su žmonėmis. Man labai patinka antiutopinės knygos bei filmai, iš kurių taip pat semiuosi patirties.

Kokią muziką klausai laisvalaikiu? Kokia yra tavo mėgstamiausia grupė?

Klausau labai įvairios muzikos. Šiuo momentu dievinu Calexico.

Papasakok ką nors apie Songs From Rueing Days. Kas priverčia tave įrašyti tokio pobūdžio albumą?

Tai yra turbūt pats geriausias mano visų laikų darbas. Padariau šimtus garsinių įrašų Porto Marghera‘oje, didžiuliame pramoniniame rajone ir supratau, kad gamyklos yra labai panašios į katedras dėl savo didžiulių erdvių, milžiniško aido. Tokiu būdu gimė idėja miksuoti pastarųjų statinių aidus. Taip ir gimė pilnas albumas. Praėjusias Kalėdas buvau Vienoje, kurios bažnyčių garsai taip pat sklaido Songs From Rueing Days. Aš tiesiog niekur neinu be savo mikrofonų.

Ar parašei laišką Kalėdų Seneliui?

Be abejo. Kiekvienais metais jam siunčiu linkėjimus su vieninteliu noru. Skristi su juo kartu į polių.

Taigi, nuostabus, nepaprastai originalus, puikaus autoriaus darbas, mėgstantiems patylėti kartu.

Read the interview at www.suru.lt [Marius Vortex]

 

AUDIODROME (2010)

È ormai qualche anno che Enrico Coniglio cattura l’attenzione di chi ascolta ambient. Giornali ed etichette importanti nel corso degli ultimi anni hanno scommesso su di lui, che non è facilmente inquadrabile, perché a seconda del disco pesca da varie epoche e tecniche dell’elettronica, risultando piuttosto eclettico e non scontato. In più, è in grado di legare i suoi dischi al suo retroterra culturale, che è Venezia, anche se non è ovviamente la Venezia delle cartoline (e nemmeno quella celebrata da scrittori e poeti, a dire il vero). Dalla necessità di capire da dove prende i vari spunti è nata quest’intervista via e-mail.

Sei autodidatta o hai qualche forma di educazione musicale? Enrico Coniglio: Assolutamente autodidatta, l’unica “educazione musicale” che ho avuto è stata quella delle scuole medie: flauto dolce e melodica per il saggio di fine anno. Al liceo poi – dopo aver strimpellato per anni sui dischi dei Beatles – ho preso qualche lezione di chitarra. L’unica vera scuola è stata, come per molti di noi, ascoltare dischi e poi cassette, e poi ancora dischi fino a consumarli. Per fare musica elettronica non serve essere dei virtuosi, non serve neanche avere un training da musicista classico, basta aver passione per la ricerca e la manipolazione del suono.

Chitarra più laptop. Oggi è una combinazione che subito fa venire in mente almeno due nomi: Fennesz e Tim Hecker. Tu come ci sei arrivato? Sono ancora i tuoi ferri del mestiere o hai aggiunto o tolto qualcosa? Adoro Hecker e Fennesz è decisamente un’autorità nel campo, ma a sposare chitarra e computer non ci sono arrivato per emulazione, semmai è stato un processo spontaneo. Quando ho cominciato a costruire il mio home studio, da principio ho utilizzato il computer per registrare, mixare, eccetera. Poi ho scoperto le potenzialità del digital processing e allora il pc è diventato qualcosa di più che un semplice supporto, cioè un vero e proprio strumento… musicale?

Tu che usi il laptop, appunto, che ne pensi per questo ritorno dell’analogico in campo ambient? Cassette, vecchi synth scassati, effettistica varia, strumenti/giocattolo, revival della “prima” elettronica… Forse si tratta soltanto di mode, forse è soltanto un tentativo delle etichette di rilanciare formati in disuso per ritagliarsi nuove (o vecchie) nicchie di mercato, ma la verità è che l’analogico non è mai scomparso del tutto: synth, vinili, drum machine e strumenti inconsueti sono sempre stati oggetto di culto, dai più. Oggi ad esempio molte etichette (Digitalis, Touch, Silentes…) sembrano interessate a pubblicare nuovamente su nastro – cosa che farà sorridere i più – ma probabilmente l’attuale coesistenza di diversi formati può essere una risposta efficace a fronte del disamoramento generale per il supporto fisico. Che dire? “Cassette will never die” è il motto della Tapeworm e speriamo pure che l’mp3 vada presto in pensione con l’arrivo della banda larga.

Com’è nato il tuo interesse per la tecnica del field recording? Non saprei, forse i miei primi field recording – anche se non li chiamavo di certo così – risalgono agli anni ’80, quando giocavo insieme a mia sorella col walkman della mamma. Le prime registrazioni sul campo che abbiano dignità d’ascolto comunque le ho fatte in un bosco del Cadore, con un registratore a cassetta Toshiba che vantava un micro-microfono stereo. Lo scopo era semplicemente quello di portarsi a casa alcuni ricordi sonori della gita, come veri e propri souvenir acustici. Fare field recordings per me è stato sempre come fare “fotografie di paesaggio”. Poi negli anni recenti ho messo meglio a  fuoco la questione, l’estetica, le tecniche ed eccomi qua: non vado da nessuna parte senza il mio Soundmand binaural. Un’ossessione, più che uno svago.

E quello per Porto Marghera (che si evince da Song From Ruined Days e Sea Cathedrals)? A me, che non sono veneziano, Porto Marghera fa venire subito in mente le storie tragiche riguardo i gravissimi problemi di salute/sicurezza sul lavoro. Per te? Porto Marghera è nel mio immaginario, fin dall’infanzia, il posto del vietato entrare, il posto del veleno, col cielo velato dai fumi degli impianti, dell’acqua  malata e dell’aria irrespirabile. Porto Marghera è “INDASTRIA” (nella maccheronica traduzione italiana) di “Conan il ragazzo del futuro”, la stupenda fiaba-ecologica del genio Miyazaki. Ma come tutte le cose paurose da bambino finiscono poi per stregarti, c’è sempre stato qualcosa di magico nelle luci del petrolchimico accese la sera, qualcosa di stupefacente nei tramonti arancioni visti dalla città antica (Venezia), qualcosa di arcano nei segreti custoditi dalla cité industrielle. Porto Marghera è poi negli ultimi tempi diventato indiscutibilmente luogo di morte, perché tutti i nodi prima o poi vengono al pettine, e perché quel che si sospettava con gli anni è diventato terribile realtà. L’emergenza ambientale e sanitaria di Porto Marghera è soltanto oggi un problema, quando fino a  poco tempo fa “inquinare” sembrava un semplice effetto collaterale del “produrre”.

Nel recensire Song From Ruined Days mi è servita la chiave interpretativa delle “cattedrali abbandonate” per comprendere lo sfumare continuo tra fabbriche e chiese e viceversa, ma ho scritto anche che il puro suono mi sarebbe bastato. A te basta il puro suono? O ti è necessario dare un forte inquadramento concettuale a ogni tuo disco? Il suono deve bastare a sé stesso, concordo pienamente. Si dovrebbe poter godere della musica anche senza conoscere le intenzioni del compositore, perché la musica deve poter mettere in moto il cervello, la fantasia e giocare con il sommerso, le nostre istanze inconsce. In ogni caso sento spesso il bisogno di dare una cornice concettuale al mio lavoro, perché tutti i miei lavori sono in qualche modo delle storie che si radicano sul territorio. Perché in fondo il territorio e il suo paesaggio sono la dimensione in cui viviamo. Poi all’ascoltatore l’ultima parola.

In Sea Cathedrals e Cloudlands (a nome Aquadorsa, tuo progetto assieme a Oophoi)  alcune volte mi sembra che convivano Dreamtime Returns (Roach) e il glitch. Stai cercando una tua personale sintesi ripescando anche i classici oppure è una cosa che emerge naturalmente? Cloudlands è nato con il modesto intento di fare un album dal sapor glaciale senza avere riferimenti precisi. L’idea era quella di proporre un album che mescolasse suoni classici con sonorità più contemporanee, a dire:  sintetizzatori e campionamenti orchestrali, disturbi digitali e ritmiche prese in prestito dalla Raster Noton. Il disco è piaciuto soprattutto per la varietà delle forme e dalla ricchezza dei suoni che ne è venuta fuori mettendo insieme il gusto di Gianluigi (Oophoi) e il mio. Sea Cathedrals invece (featuring Massimo Liverani e Manuel Posadas Cecchinato) è un disco totalmente diverso, evidentemente più cupo e riflessivo. Caratterizzato da lunghi droni, field recordings elaborati, assolutamente non-beat e – in senso forse improprio? – soprattutto industrial, è stato pensato appositamente per Silentes, etichetta che continua ad essere un punto di riferimento internazionale importante per l’ambient music, nelle sue sfaccettature dark, esoteriche e rituali.

Anche un’etichetta prestigiosa, la Touch, si è interessata al tuo lavoro. Non potresti avere sponsor migliore. Com’è nata la cosa? Eri “fan” dell’etichetta anche prima? Certo che ero fan della Touch anche prima! Ma non c’è molto da raccontare in proposito, è una storia semplice… Ho iniziato col comprare i loro dischi, poi ho pubblicato per Touch radio “Sapientumsuperaquis”, un brano di solo field recording acquatico di ambientazione veneziana, e in seguito ho proposto all’etichetta Song From Ruined Days, che è stato pubblicato in download digitale.  La Touch è circondata dal mito ed ha grande credito nel “nostro mondo”. Per quanto mi riguarda mi è stata solo aperta una piccola porta, nulla di più… e spero che in futuro ci sia ancora spazio per raccontare la Venezia “lato B”, quella che vivo e racconto con la mia musica.

Se guardiamo etichette come Silentes, Glacial Movements, poi Afe, Boring Machines, Fratto9, Eibon… uno si immagina una fiorentissima scena elettronica italiana, ricca di collaborazioni. Ti sembra sia così? Direi proprio di sì, c’è molta buona musica in giro, è un dato di fatto ormai. E poi comincio ad essere stufo di leggere recensioni di dischi di musicisti italiani che cominciano sempre colla solita tiritera, cioè che in Italia, nello schifo generale, c’è pur qualcosa di prezioso che emerge a fatica. Oggi fioriscono nuove idee, ci sono etichette stimate e soprattutto c’è voglia di fare rete tra musicisti. Perciò basta piagnistei e cominciamo a convincerci che oggi gli artisti italiani si propongono sulla scena internazionale con musica originale, di alta qualità e non solo di maniera.

Il dramma dell’ambient dal vivo: tu che cos’hai pensato per tenere viva l’attenzione del pubblico? L’idea che suonare ambient dal vivo sia un “dramma” è sbagliata. La pensano così quelli che “suonano” soltanto: noi invece “performiamo”. Le nostre performance possono essere molto più ricche e suggestive di un concertino rock, basta trovare i posti giusti e pensare la serata come un vero e proprio evento e non come un semplice live set. Con il collettivo di Laverna (la net di Padova-Venezia con cui collaboro) ci abbiamo provato: abbiamo messo insieme musica, realtà virtuale, poesia, visual e design… in qualche modo è stata una bella scommessa, ma nel suo piccolo ha funzionato. La gente non ha sempre voglia di saltare e gridare, magari qualche volta preferirebbe stendersi a terra, sotto una cupola di live visuals e viaggiare, come è stato fatto quest’estate al Big Chill (UK, www.bigchill.net/festival/line-up/quiet-voices). Certo qui a casa nostra non è facile, non ci sono gli sponsor e il pubblico è spesso sbagliato, ma qualche volta le cose vanno per il verso giusto e allora vale la pena di insistere. Sono il primo poi che spesso è scontento del risultato, ma credo che la musica ambient, ma più in generale l’elettronica, vadano promosse dal vivo tanto quanto gli altri generi. A me, per esempio, annoia tantissimo vedere un jazzista che masturba il suo strumento per dieci minuti, passa la palla al suo vicino e poi tutti a fare il coro insieme, perché non c’è un altro modo di chiudere il pezzo. Sono strutture compositive prevedibili, altro che improvvisazione. Io invece credo che si possa improvvisare moltissimo dal vivo anche con l’elettronica.

Hai pubblicato anche su net label. Come si fa a renderle progetti di qualità e non ammassi di mp3 pubblicati senza troppi filtri (domanda da un milione di euro)? Non saprei, ci sono delle net che propongono musica di altissima qualità. È vero, sono molte, ma questo non toglie spazio a chi vuole pubblicare nel modo tradizionale. È una pacifica convivenza che aiuta chi già stampa a proporsi in modo diverso e gratuito, e aiuta l’artista emergente a farsi conoscere, magari in vista di una stampa fisica. Il mondo è pieno di possibilità: o si resta bloccati sulla scaletta della nave di fronte alle infinite strade della città (hai letto Novecento di Baricco?) oppure si scende a terra e si comincia a camminare. Poi strada facendo capisci come orientarti.

Spazio finale per i tuoi progetti futuri. Faccio pubblicamente mea culpa per aver fatto uscire forse troppi lavori nel 2010. Posso soltanto promettere che nel 2011 sarò più morigerato, forse… la cosa certa è che il prossimo 25 ottobre esce ufficialmente per Psychonavigation “SALICORNIE – topofonie vol.2”, disco romantico che prosegue il discorso iniziato con le “topofonie vol.1” (“AREAVIRUS”); dovrebbe inoltre uscire entro l’anno un lavoro collaborativo a nome Herion per Hypnos, con Emanuele Errante, Elisa Marzorati al piano e Piergabriele Mancuso alla viola. [Fabrizio Garau]

 

CHITARRA & DINTORNI (2010)

Read the interview here. [Andrea Aguzzi]

 

BLOW UP (2009)

Read the interview here. [Leandro Pisano]

 

THE VIBES (2007)

Ho molto apprezzato le tue Topofonie. Puoi parlarci della gestazione del disco? Come per tutti i miei lavori la data di pubblicazione di un lavoro risulta di molto posticipata rispetto al suo concepimento. Questo perché devi rispettare il calendario della label, e ci sono mille questioni tecniche e burocratiche che ne ritardano la release. Un gap dovuto anche alla difficoltà di trovare un’etichetta in grado di assimilare la tua musica e raggiungere i tuoi possibili fruitori. Vivo questo cronico ritardo come un vero cruccio, anche perché ho il brutto vizio di considerare un lavoro già obsoleto nel momento in cui esce ufficialmente. Quando riuscirò ad accorciare la distanza tra creazione-pubblicazione, mi sentirò davvero soddisfatto. E’ una questione legata alla ricerca di coerenza, non di fretta di essere sul mercato. Tornando ad “AREAVIRUS”, la gestazione è avvenuta sul lungo periodo, i pezzi nascono in diversi momenti a cavallo degli ultimi anni. Una delle ambizioni era quella di fare un disco non difficile, eterogeneo, in grado di avvicinare orecchi meno esperti e di raccontare con la musica alcuni frame del paesaggio della laguna di Venezia.

L’environment e il paesaggio industriale di porto Marghera pare aver giocato un ruolo fondamentale. Si può parlare di sonorizzazione di questo scenario riferendosi alle Topofonie? Quando parliamo di Laguna di Venezia non intendiamo solamente gli elementi di naturalità, quello che si dice il sistema ambientale, ma il mosaico dei diversi paesaggi che la compongono. Per esempio a fianco di velme e barene troviamo le casse di colmata su cui è stata costruita agli inizi del secolo scorso Porto Marghera. L’idea di “topofonia”, come insieme dei suoni che caratterizzano un dato luogo, non può che rispecchiare le contraddizioni e i contrasti del territorio contemporaneo. Nell’itinerario immaginario, cui mi piaceva l’idea di accompagnare l’ascoltatore, Marghera occupa un posto speciale e ammanta tutto l’album con i suoi minacciosi effluvi. A prescindere dal rischio ambientale, o forse proprio a partire da quella minaccia, Marghera ha da sempre esercitato un fascino particolare su di me. Spesso con Guido Marzorati, che con il suo piano mi accompagna da sempre nelle mie esplorazioni, ci siamo dati appuntamento tra le fabbriche in via di dismissione a caccia di foto, di suggestioni, ma non solo. C’era l’idea che là, tra le rovine, tra i capannoni e le ciminiere abbandonate, ci fossero delle risposte. Risposte che, ahimè, non ho mai saputo trovare.

Come sei giunto all’irlandese Psychonavigation? Girellando qua e là per la rete, leggendo qualche recensione, soprattutto su riviste on-line specializzate. Poi ho dato un’occhiata al loro catalogo e mi è sembrato di tutto rispetto… Il produttore Keith Downey ha mostrato da subito entusiasmo per il progetto e ha deciso coraggiosamente di sostenerlo. Abitare a Venezia ti dà un senso di lontananza dalla realtà, ti senti diviso dalla Terraferma, dalla tua idea di “mondo”. Certo è il fatto che oggi un disco deve avere un’ambizione minimo minimo europea, dunque perché non produrlo in Irlanda? In qualche modo bisogna puntare ad un’internazionalizzazione della musica, che nasce radicata nel locale, ma che può essere molto apprezzata all’estero, dove l’ascoltatore “colto” è sicuramente meno snob che in Italia, e l’ascoltatore medio è forse più in grado di recepire le innovazioni anche in un genere come l’ambient che alcuni dicono non sia in grado di rinnovarsi. Psychonavigation records è una piccola etichetta, ma presente sui cataloghi dei maggiori distributori del momento.

Quale peso hanno avuto i numerosi collaboratori coinvolti nel progetto? I musicisti che hanno collaborato al progetto sono stati coinvolti in fasi diverse, e con modalità diverse. Ho voluto pensare a me stesso come il produttore delle texture ambientali su alcune delle quali poteva ergersi bene una melodia, un canto armonico. Beninteso che nell’ambient i suoni dello sfondo sono i veri protagonisti della scena sonora. Sia ben chiaro che tutti hanno contribuito al lavoro a titolo di collaborazione artistica. Per quanto mi riguarda ho lasciato loro piena autonomia di espressione, e ho ricevuto in cambio qualcosa che si è rivelato al di sopra delle mie stesse aspettative.

Ci sarà un volume 2? Mi piace pensare di sì. Anche se ora sono impegnato in altri progetti un po’ più “astratti” dal territorio, credo che tra un paio di dischi tornerò sulle topofonie. Ho in mente però un concept diverso, più fortemente legato alla geografia lagunare, l’idea quella di tracciare una reale mappa delle immagini sonore di dati luoghi-momenti. Sto pensando ad un lavoro di field-recording, con una parziale intrusione di suoni sintetici e acustici, questi ultimi magari realmente inseriti nel contesto ambientale di ripresa. Intanto sto lavorando sulla carta. Come ha detto Ermanno Olmi di recente, quando gli hanno chiesto perché voleva tornare ai documentari e chiudere col cinema, direi che la realtà si racconta già di per sé benissimo. La realtà che mi interessa è il paesaggio, sonoro ma non solo, di un dato luogo in un dato momento. Il nostro intervento è a monte, nell’atto stesso di riprendere il campo acustico, e a valle, nell’elaborare quelle riprese nella post-produzione. Poi sarà musica.

Ho letto che sta per uscire un tuo nuovo lavoro con Elisa Marzorati. Ci puoi anticipare qualcosa a riguardo? In febbraio esce sempre per Psychonavigation “dyanMU”, quello che io ritengo essere il mio lavoro più riuscito e che mi rispecchia di più. Un album delicato, minimale, fatto di atmosfere rarefatte, droni ambientali e un tocco di sperimentalismo a mio avviso ben riuscito. L’uscita è imminente quindi mi fa piacere parlarne. Il disco nasce su suggerimento della pianista classica Elisa Marzorati, che ha inciso da poco per un’etichetta italiana i Preludi pianistici di Claude Debussy. Ho preparato una bozza delle basi in circa una settimana, poi abbiamo registrato in un paio di sessioni il pianoforte. Tutta improvvisazione libera. Per le ritmiche mi sono fatto aiutare da Rena Jones, musicista della scena down-tempo californiana, veramente geniale a mio parere. Un disco autunnale, astratto e concreto al tempo. Tengo molto anche alla veste grafica, elaborata da mia sorella Francesca, sulla scorta di alcune foto scattate ai margini di un bosco peri-urbano della Terraferma, che comprende l’area militare abbandonata di Forte Cosenz, del Campo Trincerato di Mestre, un sistema fortificato in stato di degrado, ma fortemente integrato con nuovi elementi di naturalità spontanea.

Stai ricevendo numerosi feedback positivi anche da personaggi blasonati della scena ambient internazionale, come Mixmaster Morris. Ma come credi sia percepita l’ambient dall’ascoltatore “comune” inondato dal pop del mainstream? E’ una domanda divertente. Credo francamente che l’ascoltatore medio ignori l’esistenza dell’ambient cui io mi riferisco, al massimo gli capita di ascoltare un po’ di chill-out e finisce per equivocare… ambient diventa nelle persone comuni sinonimo di altri generi che hanno riscontrato più fortuna di mercato. Il pop del mainstream serve, come servono le soap-opera; se qualcuno vuole approfondire poi c’è la possibilità di farlo, basta aver voglia di cercare. Va detto poi che l’ambient music può essere ascoltata nella modalità “easy listening”, come semplice sottofondo, e in modo più approfondito, come percorso sonoro che richiede maggiore attenzione. Possiamo volere che l’ascoltatore medio si avvicini al genere, possiamo pensare di educare all’ascolto, ma ascoltare ambient music è un bisogno dell’anima, e non si può pretendere di educare ai bisogni, sennò ci si mette dalla parte delle majors…

“Weakness is a great thing and strength is nothing”. Come ricolleghi questa citazione di Tarkovski alle premesse riguardanti la cosiddetta “passione”? Domanda difficile. Mi piaceva quel frammento di monologo dello stalker protagonista del magnifico film, perché esula dai luoghi comuni ed introduce elementi di apparente contraddizione. Passione, motore di ogni cosa, è anche sinonimo di anelito, di sofferenza. Ce lo siamo dimenticati? In una visione di tipo romantica nasce come risposta al vivere quotidiano, nell’attrito tra anima individuale e mondo. Nella traduzione italiana, che mi piace di più della versione inglese, il testo recita: “la debolezza è forza, e la potenza è nulla”. Passione e debolezza sono valori, se si riesce a inalvearle verso forme di innalzamento dello spirito. Ma questa è solo la mia interpretazione…

Tra i tuoi collaboratori spicca il nome di Roedelius. Come descriveresti questo visionario musicista tedesco come professionista e come personalità artistica? Roedelius è un “mostro sacro”. E’ stato emozionante ospitarlo a Venezia. Non userei però il termine professionista, mi sembra essere riduttivo. In generale non lo userei per una personalità artistica del suo calibro. Un professionista è uno che viene in studio, suona, “buona la prima” e via. Ne ho conosciuti ed è fantastico avere a che fare con musicisti preparati, ma li vedo più come virtuosi dello strumento. Nel caso di un artista complesso come Rod è diverso. Si costruisce insieme un percorso, e possibilmente un rapporto umano.  Roedelius si diletta nella pittura e nella poesia oltretutto. La qualità è alta, delle cose e dei pensieri che ci stanno dietro. La tecnica a quel punto poco importa, ed è strumentale alla “messa in pratica” delle idee.

Come immagini il futuro della piana di Marghera? Non si può pensare che il futuro di Porto Marghera sarà nei prossimi decenni ancora legato alla produzione industriale. Sarebbe da ottusi. Bisogna pensare alla riconversione. La Chimica è in crisi dagli anni settanta, ora bisogna puntare sullo sviluppo dell’economia portuale, della cantieristica, della logistica e del terziario. Porto Marghera può essere un’enorme opportunità di sviluppo se non vogliamo “morire di turismo” qui a Venezia. C’è però il problema di salvaguardare il lavoro, c’è il problema dei costi di bonifica. Dentro di me poi resta quell’idea romantica di “giardino in rovina”, della zona industriale alle luci del tramonto, del fascino irresistibile della catastrofe imminente, e immanente da un certo punto di vista. Porto Marghera è la nostra “Zona”, come nel film di Tarkovskij: forse le risposte cui accennavo prima sono nel degrado fisico delle sue strutture, la rivincita dell’entropia, dello sfascio del tempo e della natura.

Hai già effettuato live-stage o li stai pianificando per il prossimo futuro? Il mio problema è che sono più concentrato sull’attività di produzione che sul live-stage, ma intendo invertire la rotta. Ultimamente mi capita di essere coinvolto in diverse sonorizzazioni di film muti, è divertente. Ho da poco presentato “AREAVIRUS” in una libreria qui a Venezia, e per il prossimo anno intendo portare in giro lo spettacolo. Mi ha in qualche modo stupito che la gente non si annoia affatto ad ascoltare musica ambient dal vivo: il pubblico è curioso di vedere come costruisci il brano, come produci i suoni, e si lascia suggestionare dall’atmosfera. Moltissime persone chiudono gli occhi, questo dimostra che il pubblico ha bisogno di spazi di riflessione, di fuga, bisogni che la musica pop non riesce a soddisfare. Con molta cautela, in tal senso, verrebbe da paragonare la musica ambiente alla musica classica. Un secondo aspetto positivo è che tutto riesce più sperimentale e improvvisato rispetto al disco, e questo dal punto di vista stilistico è sicuramente un plusvalore.

Secondo il tuo punto di vista, l’ambient va ricondotta al correntone post-industriale o al cosiddetto neoclassicismo? L’ambient music nasce dal bisogno di spazi di riflessione, di fuga e ritorno, di una metafisica personale laica che la musica come “guida alta” può dare nella vita di tutti i giorni. Il come e il quando ci si è avvicinati ad alcuni dischi, che storicamente hanno fatto poi “genere”, non può non condizionare la tua visione della genealogia delle fonti. Personalmente scopro l’ambient con le sperimentazioni “a doppio Revox incrociato” di Fripp&Eno, che leggo come momento di grande genio, e approfondimento di alcuni aspetti inespressi della loro esperienza pop e progressive in particolare, dove, nella costruzione complessa della cosiddetta suite, c’era sempre spazio per situazioni di atmosfera e ambientali. Questa è la mia parziale visione.